Donne che rompono il silenzio. Una storia politica

16 Gennaio 2018

Dal documentario “Femminismo” di Paola Columba

[Bia Sarasini]

Non si arresta, la marea delle donne che rendono pubbliche le molestie. Dalle attrici dello star system alle lavoratrici di ogni settore. Un movimento che non nasce nel vuoto. L’opposizione a Trump, lo sciopero delle donne, la Resistenza in Polonia. La lotta contro la violenza. Sono le donne ad avere le parole del cambiamento.

È stata un’esplosione, il caso Weinstein. Un’esplosione multipla, con molti punti di innesco. Almeno così è apparso, al suo primo manifestarsi, una deflagrazione inaspettata, per rivelarsi poi un fenomeno di lunga durata, di cui tuttora non si vede la fine. L’emersione dal silenzio – quella specie di coltre in cui tutti sapevano, e tacevano – del comportamento sessuale predatorio del produttore più potente di Hollywood, è avvenuta in seguito alle denunce di attrici che – a distanza di anni – hanno reso pubbliche le aggressioni che avevano subito dal produttore. È successo lo scorso ottobre, per prima Ashley Judd, sul New York Times, poi l’inchiesta di Ronan Farrow sul The New Yorker ha allargato le voci, tra le altre Asia Argento e Gwyneth Paltrow. Una porta che si è aperta per sempre. Chi sperava che il tutto sarebbe stato rapidamente seppellito, o che perlomeno sarebbe rimasto circoscritto al solo Weinstein, si deve ricredere. La forza d’urto è inarrestabile. Ovunque si accendono nuovi fuochi, a conferma che c’è di che incendiare, e incendiarsi. Ultime in ordine di tempo, a quanto sono a conoscenza nel momento in cui scrivo, sono le silence breakers, come le definisce la copertina a loro dedicata del Time Magazine, da cui sono state scelte come “persona dell’anno” per il 2017. Nella stessa scia un video pubblicato sulla pagina Instagram di Wmag. I will not be silent dicono alcune delle più note – e noti – dive di Hollywood, da Nicole Kidman a Jennifer Lawrence, da Emma Stone a Jake Gyllenhaal. È la strada aperta da #metoo, l’hashtag ideato una decina di anni fa da Tarana Burke per costruire solidarietà tra giovani vittime di molestie sessuali e rilanciato ora dall’attrice Alyssa Milano, per allargare a tutte la possibilità di raccontare e denunciare, dopo la sfida lanciata dal del The New Yorker e il New York Times. L’effetto è stata la marea. Migliaia di donne, e anche alcuni uomini, che hanno preso la parola, inarrestabili. E imprevedibili. Le denunce, i racconti si accumulano, tra twitter e siti dedicati nel mondo. È tempo di pensarci su.

Una storia americana. Anita Hill.

Per capire che si tratta di un ribaltamento completo basta ricordare la vicenda di Anita Hill. Nel 1991 Anita Hill denunciò e portò in tribunale Clarence Thomas, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, di cui era assistente, per molestie sessuali. Raccontò come Thomas, da lei respinto, la importunasse durante il lavoro con descrizioni crude dei film porno che guardava e le proprie fantasie sessuali. Il caso fece scalpore, perché proprio in quel periodo si doveva esaminare se Thomas potesse essere confermato nel suo incarico alla Corte. Anita Hill perse, non fu creduta, fu anzi pesantemente attaccata sia sul piano personale che sul piano politico. Fu accusata di mentire per impedire che un nero conservatore, tale era Thomas, rimanesse alla Corte Suprema. Ricordo che anche in Italia il caso fu seguito appassionatamente, e non solo per l’alone pruriginoso che portava con sé. La domanda riguardava non tanto la credibilità di Anita Hill, quanto se si potesse considerare molesto quel comportamento. L’aggressione verbale, il fluire quotidiano di sconcezze che Anita Hill denunciava. In molti, e molte, non erano persuase della sua denuncia, qui in Italia. Non che non ci si credesse, si ragionava che in fondo l’aggressività sessuale maschile, anche pesante, facesse parte delle normali relazioni tra uomini e donne. Da cui una donna si può difendere. Posizioni non molte diverse, a ben vedere, di quelle suscitate, sempre in Italia, dalle denunce attuali. In ogni caso la sconfitta della giovane avvocata afro-americana per molto tempo ha messo a tacere il tema molestie. Eppure quella sconfitta è stata un inizio, ora lo sappiamo. In seguito di quel caso negli Stati Uniti appena un mese dopo la legge sulle molestie sessuali fu modificata, rendendola più mirata, più adatta a permettere di denunciare con la possibilità di trovare ascolto nei tribunali. Anita Hill ora insegna all’Università, ha scritto numerosi libri, partecipato a trasmissioni televisive. In dicembre in un’intervista ha detto. “Nel clima attuale molte più persone avrebbero capito la mia storia, e mi avrebbero creduto”.

La parola pubblica

È potente l’effetto della presa di parola pubblica, della pluralità di voci che dettaglio su dettaglio tessono un racconto corale di quello che non è mai stato detto. Il racconto dell’avvolgente, costante, seriale esercizio della minaccia sessuale da parte degli uomini nei confronti donne. Ritengo che la si possa definire una ‘intimidazione’ permanente, un modo per mantenere il dominio, per esercitare il potere, da parte degli uomini nei confronti delle donne. Da questo punto di vista – il punto di vista di un sistema di potere, il patriarcato – poco importa il comportamento dei singoli e la loro soggettività, piuttosto sono da considerare degli ‘operatori’, diversi tra loro, più o meno aderenti allo schema, ma convergenti nel risultati. In questo senso, nel contesto del sistema di potere patriarcale, anche il più lieve degli scherzi, può adombrarsi di significati hard. Per questo i rapporti tra i sessi sono quasi sempre in tensione, anche quando si trovano in un terreno di reciprocità, di scambio più o meno uguale. Ovviamente il massimo punto di conflitto è quando ci si muove in espliciti e codificati rapporti di potere, nei luoghi pubblici, nei luoghi di lavoro.

Ho scritto ovviamente, eppure ovvio non lo è per nulla. Altrimenti non si spiegherebbe lo stupore generalizzato che accompagna la marea montante delle voci che parlano. Non è la singola denuncia che stupisce. Tutti sanno di che si parla. Lo stupore è per il coro. Molti uomini sono sinceramente stupiti, e spesso addolorati, di scoprire qual è la vita reale di amiche, compagne, mogli, sorelle, madri, figlie. Stupefatti di capire cosa affrontano le persone che stanno accanto a loro, che apparentemente vivono la loro stessa vita. Una vita che invece non conoscono, che è sempre stata taciuta, tenuta nascosta attraverso lo stigma della vergogna, l’altra faccia della minaccia. È proprio così, paura e vergogna. Questo rivela la varietà delle denunce che emergono. Dalla mano sulla coscia durante una cena ufficiale dell’Unione Europea, alle avances dei capi in orario di lavoro, alle battute pesanti e offensive. Alla classica mano morta in autobus. Agli inseguimenti per strada, a quello che inchioda al muro, e pensi di non farcela a scappare. O semplicemente i passi alle proprie spalle. Fino agli stupri veri e propri. Tutto questo esaspera chi vorrebbe mantenere l’ordine, naturalmente quello vigente. Che vorrebbe distinguere, gli stupri da tutto il resto, che vorrebbe poter dire, ancora e sempre, che sono tutte ragazzate. Bisogna che si rassegnino, sarà difficile che si torni indietro, nulla sarà come prima.

Perché le voci del racconto corale sono autentiche. Parlano di sé, si assumono la responsabilità personale di quello che dicono, e lo dicono insieme, costruendo un noi che non annulla le individualità, un’esperienza inedita, una novità di questo tempo. Perché ogni donna che ha letto o ascoltato ne ha riconosciuto la dinamica. E ciascuna sa di avere taciuto, quasi sempre, e ne sa i motivi. Li ho riassunti nel concetto “intimidazione”. Le molestie, le aggressioni, le violenze sessuali stanno al dominio degli uomini sulle donne come i pizzini, le bombe, le ‘ammazzatine’ stanno alla mafia. Sono strumenti del potere. Le donne vanno tenute al loro posto. In silenzio, possibilmente spaventate, E soprattutto, oltre che vittime, colpevoli. Colpevoli di avere scatenato quella violenza, quell’aggressione. Di cui devono sopportare l’onta. Oggi le donne quella paura, quella vergogna la buttano all’aria, la rendono un fatto pubblico.

Molestie sul lavoro

È necessario avere ben chiaro che queste denunce parlano di quello che avviene nei luoghi pubblici, dalle strade ai luoghi di lavoro, fino ai luoghi istituzionali della vita pubblica in senso stretto, come parlamenti, governi, commissioni internazionali. In pratica si tratta dell’altra faccia della violenza domestica, che fino a oggi ha in pratica monopolizzato la rappresentazione mediatica della violenza maschile. Per questo è importante che a parlare siano state per prime le attrici, che hanno messo in gioco il loro glamour. Che hanno parlato non della loro vita sentimentale o familiare – tutti sappiamo, per esempio, che una rockstar come Tina Turner era maltrattata dal marito – ma delle loro vicissitudini sul lavoro, in genere agli inizi della carriera. Proprio la loro fama, l’atmosfera glamour che le circonda, aiuta le altre a parlare. Loro sono il punto più visibile, e riconoscibile, dell’immaginario contemporaneo. Interpretano storie in cui ci si può identificare, riconoscere. In fondo è uno schema molto semplice, se parla lei posso parlare anch’io. Le elite senza potere, mettono a disposizione il loro notevole potere simbolico.

Non che le molestie sessuali sui luoghi di lavoro non siano mai state affrontate, anzi. Per rimanere all’Italia, l’Istat sulla base di una ricerca del 2016 calcola che sia l’8,9% delle lavoratrici ad avere subito molestie o ricatti sessuali, circa  1 milione 403 mila. E solo una donna su cinque trova il coraggio di parlarne, in genere con colleghi e sindacati. Solo lo 0,8% ha denunciato alle forze dell’ordine. Il 34% si arrende: le vittime hanno preferito rinunciare alla propria carriera o hanno cambiato lavoro. Nell’11% sono state licenziate e nell’1,3% si sono verificati casi di trasferimento o demansionamento. Il 4,7% delle vittime ha continuato a lavorare in quell’azienda e il 5,4% sostiene di avere chiarito tutto.

Le cifre sono importanti, ma qui vorrei soffermarmi sui nessi sistemici, se così si può dire. Va sottolineato che lo spazio pubblico è stato conquistato palmo a palmo, dalle donne. A cominciare dal lavoro. Il prezzo è stato difendere la propria autonomia, sottrarsi alle pretese maschili, anche in termini simbolici. Le operaie della prima rivoluzione industriale, per esempio, erano considerate senza tanti infingimenti come “donne pubbliche”, ovvero prostitute, nel linguaggio dell’epoca. Per non parlare delle donne che lavoravano nelle case: domestiche, ancelle, serve, erano considerate a disposizione. Stava a loro riuscire a cavarsela, vincere la sfida, preservare la propria reputazione, salvo essere scacciate. E qualcosa è rimasto, mi è venuto in mente nel leggere i racconti pubblicati da Time magazine delle donne che lavorano negli alberghi. Storie dure, difficili da sostenere. Tantissimi i clienti che si considerano autorizzati a qualunque libertà con loro, che tacciono, cercano di difendersi, nel timore di perdere il posto di lavoro. È l’autonomia, la libertà femminile che ha scardinato la separazione tra sfera pubblica e sfera privata. Separazione di estrema funzionalità, per il sistema patriarcale.

Da vittime a protagoniste della propria vita

Il caso Weinstein, e la marea che ci sommerge, è una prosecuzione del cambiamento in corso. Rende visibile che c’è un’unica minaccia, un’unica intimidazione, un’unica violenza contro le donne. E soprattutto mostra che le donne oggi sono in grado di denunciare, e nello stesso tempo ribellarsi allo statuto di vittima. Che sono in grado di non farsi schiacciare in un’unica dimensione. La vittima, ancorché denunciante, può ancora essere compatibile con un sistema patriarcale in grado di adeguarsi alle novità. È un passaggio chiave, non ancora del tutto messo a fuoco, a mio parere essenziale per il futuro. Nello spazio pubblico le donne hanno relazioni, possibilità di parola, non sono isolate come nelle case. Possono costruire una forza comune, un agire insieme. Non è una teorizzazione, è quello che avviene. Sarà importante vedere l’effetto delle denunce sulle donne che subiscono molestie e violenza negli spazi domestici, che come si sa sono la grande maggioranza. Secondo i dati Istat relativi all’Italia, 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri. Proprio il confronto con i dati relativi al lavoro mi fa pensare che si tratti di una possibilità politica tutta da immaginare e costruire. È vero che il sistema mediatico inghiotte e tritura qualunque cosa, anche la tragedia, riducendola a poltiglia informe. Eppure la fermezza, la coralità, la continuità dei racconti hanno il suono di quella pratica del femminismo che è il partire da sè. È una sfida politica da raccogliere.

Una storia italiana. Classe, sessualità, invidia

In Italia il caso Weinstein è piombato su una situazione già in allerta. Nell’agosto 2017 a Rimini uno stupro di gruppo in spiaggia da parte di ragazzi magrebini ai danni di una ragazza polacca ha riportato in auge nel racconto mediatico la categoria dello stupro etnico. In settembre la denuncia di due ragazze americane, a Firenze per motivi di studio, di uno stupro da parte di due carabinieri in servizi, ha scatenato una polemica furibonda. La denuncia ha faticato a essere presa sul serio, le ragazze avevano il grave torto di essere ubriache, e si fa a fatica a ricordare che per la legge questa è un’aggravante, come è giusto, non un’attenuante. E nel procedere delle indagini, ancora si dà molto credito alla parola dei carabinieri, o dei loro avvocati: “È un bel ragazzo”, ha detto l’avvocato del più giovane “non ne ha bisogno”. Insomma, un’idea primordiale della sessualità e dei bisogni maschili. Non stupisce che in Italia, più che altrove, non ci si rassegni alla valanga Weinstein. E si dedichi più attenzione all’attrice italiana coinvolta, Asia Argento, che a tutto il resto. Per denigrarla, ovviamente. Accusarla di averne approfittato. Di essere una privilegiata, una figlia di papà che non si deve lamentare di nulla. Spia di una misoginia diffusa, tra donne e uomini, a destra come a sinistra. E mentre altrove, negli Usa come in Inghilterra si procede a rimuovere o sospendere gli uomini incriminati, in Italia si discute, si evocano scenari apocalittici. Si teme per il desiderio, ovviamente maschile. Che fine farà? Si evocano la caccia alle streghe, il puritanesimo anglosassone e si vorrebbe che tutto finisse lì. Le maree, come è noto, travolgono, non fanno distinzione tra ciò che trascinano con sé. Una mano sul culo non è uno stupro di guerra. E sarà necessario tenerne conto. Ma se arriva un’onda bisognerebbe pensarci prima di lamentarsi, anche tante donne, che così si distrugge l’attrazione sessuale. E i poveri uomini, come fanno? Il gioco sessuale è tra i più divertenti che l’umanità abbia a disposizione. Non credo che verrà distrutto se un uomo, che abbia un potere di qualunque genere su una donna, si chiede se inchiodarla al muro nel proprio ufficio sia una piacevole espressione di sano desiderio condiviso o un atto di intimidazione. Sarò ottimista, ma penso che un uomo medio sia in grado di sapere, se una donna vuole o no. E di farsi qualche domanda. Questo è il punto. Tanti fanno finta di no.

Di fatto la discussione è una replica infinita del confronto aperto già ai tempi di Berlusconi. Un’incapacità di capire quanto succede. Come ha scritto su Internazionale online (8/12/2017) Ida Dominijanni, che sul caso Berlusconi ha scritto un libro, Il trucco*: “Accadde esattamente la stessa cosa qualche anno fa in Italia, quando alcune donne squarciarono il velo del sistema berlusconiano di scambio fra sesso e potere e furono sostenute da voci femminili e maschili del giornalismo indipendente, solo che allora nessuno ringraziò nessuna ‘per aver dato voce ai segreti, per aver trasformato i whisper network in social network, per aver spinto tutti a smettere di accettare l’inaccettabile’ come fa adesso il Time, e i risultati si vedono oggi che Berlusconi torna restaurato al centro della scena politica e tutti sono convinti che a farlo fuori nel 2011 sia stato lo spread e non le donne”.

Una storia polacca. La Resistenza è delle donne

È da qualche tempo che le donne sono in movimento. Una nuova ondata. È un errore pensare che il caso Weinstein nasca come un fungo, senza premesse, senza contesto. E non solo perché da anni le attrici, per esempio in occasione della consegna degli Oscar, denunciano il potere maschile imperante a Hollywood. Bisogna pensare al black monday polacco, il giorno del settembre 2016 in cui le donne che si rifiutarono al loro lavoro, compreso andare a prendere i bambini a scuola o cucinare, il giorno che bloccò l’abolizione della già limitata possibilità di abortire. Unica manifestazione di opposizione al governo reazionario della Polonia. Alle manifestazioni nel mondo del 25 novembre 2016, organizzate da NonUnaDiMeno, a partire dall’Argentina. Alla Marcia delle donne, il movimento contro Donald Trump, dopo la sua elezione a presidente. Che, con un gioco di parole, potremmo definire “molestatore capo”, lui che si vantava di afferrare le donne per la pussy, senza stare a girarci intorno. Non c’è da stupirsi che in piazza nel gennaio 2017 siano apparsi i pussy hat, portati da centinaia di migliaia di donne, e che il fucsia sia diventato da allora in poi il colore del movimento. Ripreso per lo sciopero dell’8 marzo, ancora una volta internazionale, e di nuovo nelle manifestazioni dello scorso 25 novembre. C’è continuità, c’è una forza che cresce. Che si muove nel mondo, contro il potere esistente. In tutte le sue forme.

È uno snodo fondamentale. Forse è più chiaro in Polonia, dove tuttora sono le donne a guidare l’opposizione al governo ai movimenti fascisti che esistono nel Paese. In una situazione sempre più aspra, con una repressione poliziesca sempre più violenta. Ma bisognerebbe capire, da dove viene la forza, mentre non c’è nessun altro in grado di organizzare e sostenere l’opposizione. Come scrive Wlodeck Glodkorn, sull’Espresso (8/12/2017): “Senza perifrasi, oggi, in Polonia la resistenza è la Resistenza delle donne. A partire dai loro corpi, dal linguaggio, dai metodi di lotta. Sono state loro, un anno fa, a scendere in piazza contro una legge che voleva rendere l’aborto impossibile, ed erano milioni di donne. E ci sono sempre le donne nelle primissime file delle manifestazioni in difesa dell’indipendenza della magistratura e per la democrazia, minacciata non solo dai fascisti, ma anche dal governo in carica”. E più oltre. “Caduto il comunismo, la Chiesa è tornata nazionalista. La politica di destra, invece, ha recuperato il vecchio linguaggio xenofobo e autoritario, mentre la sinistra ha perso la parola. Ambedue hanno tradito le donne. E allora alle donne non è rimasto altro che organizzarsi e reinventare il linguaggio dell’avvenire”.

Non è costume, è politica

Cosa significa, che le donne reinventano il linguaggio dall’avvenire? Che resistono? Può sembrare intuitivo, semplice. Perché le vedi in piazza, affrontare la violenza della polizia. Eppure non è diverso dal lottare contro la violenza maschile, dal denunciare le molestie. Per questo bisognerebbe capire da dove nasce la forza, la possibilità di organizzarsi. Certo, bisogna ancora vedere quanto è profondo l’impatto, aspettarsi contraccolpi. Ma dovrebbe essere chiaro che non si tratta di diversivi, ma che si procede per via diretta contro un potere che è un volto del neocapitalismo. Quello che penetra le forme di vita, ne fa materia della propria accumulazione. Un potere che le donne fronteggiano vis-a-vis, ora che sono uscite dalla sfera privata in cui erano rinchiuse. Per questo trovano le parole, perché conoscono ciò che hanno davanti. Per gli uomini è difficile, perché loro stessi ne sono un’articolazione. Prendiamo il lavoro, per esempio. Se il lavoro è stato frammentato, diviso, svalorizzato, se non si trovano forme che permettano di unirsi, lottare insieme, lo sciopero delle donne dell’8 marzo, che ci sarà anche nel 2018, ha rovesciato la tendenza. Proprio perché forti dell’esperienza della vita quotidiana, dall’esperienza intima del vivere e sopravvivere. Per questo non bisogna farsi ingannare dallo star system. Le attrici non avrebbero trovato la forza di opporsi, senza la marcia delle donne, senza lo sciopero delle donne, senza il movimento che sa che il femminismo è intersezionale, cioè nel suo spettro si incrociano sesso, razza, classe. Per questo non si perde nessuna. E si tratta di un movimento politico. Si oppone a un potere mortifero, anche se per ora trionfante. La sinistra non ha le parole per dirlo. E per farlo.

*Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse 2014

Articolo apparso su Alternative per il socialismo n. 47-48, dedicato al movimento delle donne, di Bia Sarasini, giornalista, ha scritto e condotto programmi di informazione e cultura per Radiotre. Per sei anni è stata la direttrice di “Noidonne”. Oggi è free-lance e consulente, scrive tra l’altro per il SecoloXIX, il quotidiano di Genova, la città dove è nata.

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