Fuoco

1 Agosto 2009

Natalino Piras

L’anima che hai messo in me, Signore / è fumo / dell’eterno incendio di memorie d’amore. / Nasciamo e ci mettiamo ad ardere, finché il fumo / dilegua come fumo. (Yehuda Amichai Poesie a cura di Ariel Rathaus Milano, Crocetti, 1993, 2001)

Dal libro delle sepolte. Quella stessa estate, a confine tra secondo e terzo millennio, arse la foresta di Astores e spegnerlo fu cosa immane, fatica di Sisifo. L’orizzonte erano colonne di fumo. Il fuoco scendeva per poi risalire costoni roventi, riverbero di rosso sulla pietra che fu d’argento, canaloni di colate che sembravano laviche. Agli spegnitori bollivano le piante dei piedi nel loro camminare a zig zag, come cervi feriti, linea labile di tute arancione, di casacche blu e uniformi verdi. Il fuoco si mangiava andalas di terra battuta e gradoni di pietrisco, sterpi e letti di felci, sassi affioranti e radici che laceravano il terreno. Al fragore apocalittico del crepitare succedeva il buio della foresta, come una cappa di silenzio irreale, campana di vetro contenente la tenebra. Gli spegnitori stringevano i denti, respiravano affannati, a bocca chiusa. Tutta gente raccattata per caso e volontari veri. Il caso ripristinava una regola di qualche quarantennio prima quando chi non riusciva a scappare al suono della sirena di allarme veniva preso e caricato sui camion diretti al fronte del fuoco. Quarant’anni erano passati. Melchoro Minero vide il fuoco e si fece volontario dello spegnimento. Fu caricato dentro il cassone di un camion già affollato gente in piedi e seduta a formare un fitto groviglio, muro di odori e di fiati rattenuti, di chiazze di sudore sotto le ascelle. Quelli che furono caricati per primi stavano seduti su panche traballanti. Erano tutti muti, il volto teso e le mani che si stringevano nervose a pugno. Nell’atto di spingerlo dentro il cassone anche a Melchoro Minero in scarponi, jeans e giacca mimetica, dettero roncola e una sacca da spegnitore con dentro una borraccia di abbardente diluita, “per prevenire” l’asfissia sentì che diceva una voce cavernosa.
Ci fu subito da combattere. A Melchoro Minero dolevano fegato e milza, si sentiva scoppiare il cuore e annegava nel fumo mentre musi meccanici gli venivano contro, rostri di camion lampeggianti di giallo e di blu nell’acre del cielo sbriciolato in cenere. I camion-mostri e le ruspe-mostri si presentavano contro le fila degli spegnitori e sembrava che nessuno li guidasse. Il fragore del fuoco era attraversato da rinnovati suoni di guerra e da laceranti sirene, e non servivano né le frasche né la roncola né la borraccia di abbardente.
Il fronte del fuoco si estendeva da una porta all’altra della foresta, rossa lingua del diavolo che divorava fianchi coperti di lecci e sughere, di pinus radiata e di querce, risaliva dal basso ai picchi frastagliati, al luogo di concentrazione delle pale eoliche nella punta più alta di Sant’Enis. Poi ridiscendeva furioso saltando da cima a cima negli alberi. Le colonne dell’inferno toccavano il cielo mulinando cenere e gli alberi mano a mano scomparivano dalla faccia della terra per fare posto ad altre colonne di fuoco e di fumo. Mangiata la cima della collina, la tempesta di fiamme attaccò nuovi pendii, risalì nuovi colli e ridiscese la valle dell’uva, quella dei cervi e del Lupu.
Non era più possibile domare le fiamme. Vennero i canadair e rovesciarono dal cielo tonnellate d’acqua ma era come buttarne un bicchiere in un falò. Gli elicotteri roteavano in mezzo all’apocalisse ma un’altra forza diabolica li attirava a sé, come la gola di un baal.
Melchoro Minero ne vide cadere prima uno e poi un altro, li sentì esplodere in mezzo alle fiamme, un boato solo un poco più forte del crepitare moltiplicato nell’aria arroventata. Bevve un sorso di acquavite e si mosse in avanti brandendo la frasca come una donchisciottesca durlindana. Ma era un camminare inutile. A tratti, in mezzo al fumo asfissiante scorgeva nuovi arditi che se urlavano nessuno li sentiva, voci scoppiate di polmoni esausti. Scomparivano e riapparivano. Un elicottero proveniente dalla collina sbucò all’improvviso dal fumo, come un drago alato sopra la torre di una fabbrica fallita, quante ce n’erano dentro quella foresta. L’elicottero si abbassò impazzito in cerca di atterraggio e nel volo radente le pale del rotore decapitarono uno spegnitore. La testa volò via come un pallone e andò a cadere in una pozza di braci, sfrigolando come una goccia di lardo bollente sulla cotenna di bestie arrostite. Alle nari di Melchoro Minero ne venne gusto acre, come di gomma bruciata, e provò meraviglia per riuscire a distinguere particolari odori in quel bollitoio di morte.
Non c’era più niente da bere, neppure abbardente tagliata e il fronte del fumo si faceva più spesso. Quando diradava si scorgevano cime annerite, file disperate di alberi, grumi e cumuli di fuliggine Melchoro Minero prese a vagare e iniziò a vedere neri morti bruciati, carne annerita. L’acre non riusciva più a sopportarlo. Come fosse un mucchio di carne sacrificale che si rigenerava di continuo, uomini e fiere, selvaggina, cinghiali e bovini, intere greggi di pecore e drappelli di capre, cervi, daini, persino aquile: il fuoco era risalito sino ai loro imprendibili nidi, nei roccai che spuntavano come stalagmiti dal fondo dell’inferno. La sua stessa pelle avviluppava Minero come in un mantello incandescente. Errava pazzo sul bordo dell’abisso come in un incubo, sentendo la morte addosso.
Poi, dopo molta guerra, un intero lungo giorno una intera lunga notte, il fuoco finì. A rogo spento, ai piedi della torre di una delle fabbriche fallite, Melchoro Minero rinvenne una navicella votiva, un bronzetto dell’età dell’oro di Chentomínes. Come per miracolo non risultava bruciato dal fuoco. Era un segno: la navicella nuragica a protome bovina era un archetipo della nave che trasportò il capitano Istefane Dorveni e i suoi soldati nella risalita del Tyrsus per porre fine al rennu bastardo di Kurtz.

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