Giornata della memoria a Cagliari

26 Gennaio 2012

Claudio Natoli

E’ ormai il dodocesimo anno in cui il nostro Dipartimento e l’Università di Cagliari, insieme all’Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell’autonomia e all’Istituto tecnico industriale Scano promuovono qui a Cagliari la Giornata della memoria. Noi riteniamo che il riconoscimento istituzionale in Italia e a livello europeo di questa ricorrenza costituisca un fatto importante, anche dal punto di vista politico, culturale, civile e anche simbolico, proprio perché costituisce un fatto tutt’altro che scontato nella storia dell’Europa del secondo dopoguerra. Siamo ben consapevoli, infatti, come la memoria di Auschwitz per tutta una prima fase dopo la Liberazione e sino ai primi anni ’60 sia stata ben lontana dal divenire parte integrante della rinascita democratica e civile dell’Europa dopo il crollo del nazifascismo, ma all’opposto sia andata incontro a fenomeni di emarginazione e di vera e propria rimozione nella sfera pubblica e nella coscienza collettiva. Cosicché, come ha ricordato Primo Levi, i sopravvissuti non trovarono per molto tempo interlocutori disposti ad ascoltarli e finirono per scegliere il silenzio piuttosto che la testimonianza. Per dare una spiegazione di questo fatto bisogna considerare che la memoria di Auschwitz era particolarmente scomoda: e questo perché non chiamava soltanto in causa il ruolo determinante svolto da Hitler, dalla dirigenza nazista e dalle SS, ma anche uno spettro molto più ampio di corresponsabilità che andavano dalle élites tradizionali del potere che avevano sostenuto il regime e la sua devastante espansione sul continente europeo, ai silenzi delle Chiese, all’apatia, all’indifferenza, al rifiuto di vedere e di sapere da parte della maggioranza della popolazione tedesca. Ma la questione andava ben al di là di un caso esclusivamente tedesco. Vi erano le corresponsabilità del fascismo italiano e di tutti i governi collaborazionisti e degli Stati satelliti della Germania nazista, senza il cui volenteroso concorso la Shoah a livello europeo non sarebbe stata possibile, e quindi la questione dei comportamenti dei governi e delle burocrazie, ma anche degli atteggiamenti delle popolazioni in tutti i paesi dell’Europa compresi nella sfera egemonica del nazi-fascismo. Nel caso specifico dell’Italia, vi era un senso comune, diffuso non solo a livello istituzionale, che accreditava la falsa e autoassolutoria immagine che le leggi razziali del 1938 fossero state una mera concessione formale di Mussolini all’alleanza con Hitler e fossero state per giunta applicate senza rigore e senza convinzione delle autorità fasciste, anche perché avrebbero incontrato la ripulsa generale del popolo italiano. Anche i primi studi sugli ebrei italiani durante il fascismo meritoriamente intrapresi da Renzo De Felice (siamo ancora all’inizio degli anni ’60) avevano il grave limite di corroborare questa impostazione, che peraltro era stata accreditata anche da una parte dell’ebraismo italiano.
Da allora il quadro si è andato profondamente modificando (una data fondamentale di svolta è stata costituita da questo punto di vista dal processo Eichmann che si celebrò peraltro in Israele). E’ importante anche sottolineare come su queste nuove dinamiche molto abbia influito l’enorme lavoro di ricerca, dapprima sul rapporto tra nazismo e società tedesca e poi sulla dominazione nazi-fascista dell’Europa durante la seconda guerra mondiale, sulla guerra di sterminio a est e sul cosiddetto Nuovo ordine europeo che è stato portato avanti a partire dalla fine degli anni ’60 dagli storici tedeschi e dalla storiografia internazionale, in  particolare nel mondo anglo-sassone (la prima edizione della monumentale opera di Raul Hilberg risale al 1986), sino ad investire le realtà dei singoli paesi, dalla Francia di Vichy all’Italia fascista. Proprio in quest’ultimo ambito nell’ultimo ventennio il panorama storico e storiografico è profondamente cambiato, essendosi arricchito, oltre che delle memorie di molti testimoni, di una serie di nuove e fondamentali ricerche (dal Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion alla grande ricerca diretta da Enzo Collotti sulla persecuzione antiebraica in Toscana). Questi studi hanno dimostrato il pieno coinvolgimento del fascismo italiano nel “cono d’ombra” dell’Olocausto ma anche il carattere autoctono del razzismo di Stato nel nostro paese, i legami di continuità tra il razzismo legato alla guerra d’Etiopia e la persecuzione antiebraica del 1938-1943, sino alla partecipazione diretta dei fascisti di Salò nella cattura e nella deportazione verso i campi di sterminio degli ebrei nell’Italia occupata dopo l’8 settembre 1943.
Non c’è dubbio che questo grande lavoro da parte degli storici, con tempi e modalità diverse da paese a paese, abbia costituito la premessa per una assunzione di responsabilità anche da parte delle istituzioni, per un coinvolgimento degli organi di informazione, della stampa e della comunicazione audiovisiva, e infine per il riconoscimento ufficiale nel 2001 della Giornata della memoria. Da allora si può dire che la memoria della Shoah sia stata pienamente assunta dalla cultura, dalle istituzioni, dalla comunicazione politica e dall’informazione mediatica: fatto ancora più importante, essa è stata all’origine, ai più diversi livelli, di molti programmi di formazione scolastica, alcuni straordinariamente qualificati, anche qui in Sardegna, a Cagliari e a Nuoro, che hanno portato anche all’organizzazione di visite guidate ai luoghi della memoria in Italia, in Germania,  in Polonia e nella Repubblica ceca.
Se tracciamo un bilancio complessivo di quanto è avvenuto in Italia nell’ultimo decennio, non possiamo che esprimere un giudizio nettamente positivo. E tuttavia non possiamo esimerci dal sottolineare i pericoli che possono insorgere in relazione al carattere marcatamente istituzionale della Giornata della memoria e che possono svuotarne il significato più autentico. In particolare, vorrei qui mettere in guardia contro la retorica celebrativa, i fenomeni di semplificazione e di decontestualizzazione, se non di spettacolarizzazione, che possono portare ad inglobare la Shoah dentro una indistinta deplorazione di un asserito “male assoluto”, separandola dalla realtà dei Lager e della deportazione politica e soprattutto dall’esperienza storicamente determinata dei regimi fascisti e dal modello di Stato e di società a cui essi facevano riferimento.
E poi vi è il problema molto delicato della trasmissione della memoria, nel momento in cui, dolorosamente, veniamo messi di fronte alla prospettiva della inesorabile scomparsa fisica di tutti i testimoni diretti. E’ una questione su cui ha recentemente scritto parole illuminanti Enzo Collotti:

“…la memoria individuale è spontanea, ma la memoria collettiva va in qualche misura costruita o aiutata nella costruzione ed è sempre una memoria selettiva…(L)a memoria la teniamo viva se è legata a un processo di conoscenza: la memoria come apprendimento: questo è secondo me l’unico canale che può dare futuro alla memoria: ma questo implica l’intervento attivo vuoi dello storico vuoi delle istituzioni dell’istruzione, della scuola. Ciò significa che la memoria è frutto dello studio e non di mera emotività né di improvvisazione.
Chiunque ha lavorato in questi campi si rende conto che la filiera della memoria se non è alimentata e fondata su canali reali di conoscenza, su ricostruzione storica e su documentazione finisce per essere mera retorica. E’ un’esperienza che si è fatta molto con le vecchie associazioni (ex deportati ed ex internati militari ecc.) che hanno prodotto una grande ricchezza di memorialistica, ma la memorialistica è una cosa diversa da un processo di costruzione di una memoria. Spesso si è equivocato su questo. Non bastano le memorie per fare la memoria: le memorie sono fonti come le altre e quindi vanno sottoposte alla critica delle fonti. La formazione di una memoria collettiva è un processo molto più complesso che richiede una pluralità di fattori” (Enzo Collotti, Impegno civilee passione critica,a cura di M. Salvati, Roma, Viella, 2010, p. 218).

Ho fatto ricorso a questa lunga citazione, perché essa non potrebbe meglio sintetizzare lo spirito con cui dal 2002 e poi in tutti gli anni che sono seguiti abbiamo promosso qui a Cagliari la Giornata delle memoria e gli obiettivi che ci siamo proposti di raggiungere. E aggiungerò che non è affatto un caso che dal 2004 proprio Enzo Collotti sia stato una delle figure chiave della nostra manifestazione. Non sarà inutile a questo punto un breve excursus del percorso che abbiamo realizzato, e che si caratterizza tutt’oggi come un vero work in progress, un percorso che copre ormai il ragguardevole spazio di dodici anni.
Nel lontano 2002 abbiamo dedicato la Giornata della memoria al fascismo italiano e alla persecuzione degli ebrei, con relazioni di chi vi parla e di Maria Luisa Plaisant, in un incontro svoltosi al teatro dell’ERRSU che vide una straordinaria partecipazione delle scuole.
Dal 2003 e sino alla data odierna abbiamo scelto di organizzare la Giornata della memoria all’interno del Polo umanistico dell’Università e abbiamo affrontato, con relazioni dei medesimi relatori, la dimensione europea della Shoah e del sistema dei campi di concentramento e di sterminio riconducendoli, con una precisa scelta metodologica, a un contesto unitario.
Nel 2004 abbiamo affrontato due questioni: 1) il tema storico della memoria della Shoah nell’Europa, con le sue rimozioni e le sue riscoperte, nel cinquantennio successivo alla seconda guerra mondiale, con relazione di Enzo Collotti; 2)la questione della resistenza civile dal punto di vista del salvataggio degli ebrei, avendo come riferimento la vicenda dei ragazzi di Nonantola, su cui abbiamo chiamato a parlare lo storico berlinese Klaus Voigt che ha scoperto e ricostruito questa storia in un bellissimo libro uscito in Germania e in Italia. Ciò ha costituito anche l’occasione per portare a Cagliari la magnifica  mostra fotografica e documentaria allestita su questo tema da Voigt per conto del Comune di Nonantola. La mostra, organizzata in collaborazione con l’Archivio di Stato di Cagliari e la Soprintendenza archivistica per la Sardegna, è rimasta aperta per quindici giorni alla Cittadella dei Musei grazie al lavoro volontario degli studenti medi dell’Istituto Scano e di quelli del mio corso universitario, che hanno svolto, dopo un impegnativo corso di formazione il compito delle visite guidate per la cittadinanza e per le numerose scuole di Cagliari e del circondario che l’hanno visitata.
Nel 2005 abbiamo affrontato il tema dei Lager e della Shoah in Italia e in Europa, coniugando i temi della persecuzione politica e di quella razziale, con relazioni di Enzo Collotti sul sistema dei campi di concentramento e di sterminio, di Tristano Matta sulla Risiera di San Sabba a Trieste e di Alessandro Portelli sulla storia orale in riferimento alle testimonianze dei perseguitati. La manifestazione è stata arricchita da una eccezionale rappresentazione teatrale, svoltasi al cinema-teatro Alfieri di Cagliari: e cioè dall’opera I me ciamava per nome, di Renato Sarti, tratta dai verbali del processo di Trieste sulla Risiera di San Sabba, una declinazione italiana di alto livello della celebre Istruttoria di Peter Weiss.
Nel 2006 e nel 2007 i temi prescelti sono stati Da Auschwitz all’universalità dei diritti e Guerra totale e diritti umani, con una riflessione complessiva su quanto la tragedia del nazi-fascismo e della seconda guerra mondiale come guerra totale abbiano influito dopo il 1945 sulla ridefinizione dell’intera problematica dei diritti dell’uomo e della cittadinanza democratica (costituzionalizzazione del lavoro, indissolubilità tra diritti politici e diritti sociali, democrazia partecipativa), e anche su quanto questo patrimonio, sancito dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e dalla nostra Costituzione, non rischi di essere vanificato oggi nell’epoca del neoliberismo e della globalizzazione: su questi temi abbiamo potuto avvalerci delle relazioni di Enzo Collotti, dei contributi di due eminenti giuristi come Luigi Ferrajoli e Salvatore Senese, degli interventi di protagoniste e testimoni come Vera Salomon e Pupa Garribba. A ciò abbiamo accompagnato lo spettacolo teatrale Dimmi di Teo Paoli, che ripercorre le vicende di una famiglia ebrea italiana nel corso del ‘900, sino alla difficile reintegrazione dei diritti nell’Italia repubblicana.
Nel 2008 abbiamo affrontato due diverse problematiche: una rivisitazione del tema del fascismo italiano e della persecuzione degli ebrei alla luce dei risultati della più recente storiografia, con relazione di Enzo Collotti, e un approfondimento, che consideravamo di bruciante attualità, della questione della persecuzione e dello sterminio nazista dei Sinti e dei Rom, con relazione dello scrivente e la proiezione di brani e di testimonianze tratte dal film A forza di essere vento. Nell’occasione, al teatro dell’ERSU è stato proiettato il film di Mimmo Calopresti Volevamo solo vivere, costruito sulle testimonianze dei perseguitati raccolte nell’ambito della grande ricerca promossa dalla Fondazione Spielberg, con introduzione di Donatella Picciau.
Nel 2009 abbiamo nuovamente coniugato la persecuzione razziale e quella politica avendo come punto di riferimento l’ordine del terrore e il Lager di Mauthausen, con relazione di Enzo Collotti. Su di un altro versante abbiamo riaperto l’ambito della resistenza civile, approfondendo il caso, del tutto sconosciuto in Italia, del soccorso e del salvataggio di migliaia di ebrei berlinesi da parte di concittadini tedeschi durante la seconda guerra mondiale, con relazione di chi scrive (il testo è stato pubblicato  in forma saggistica su “Studi e ricerche”, la rivista del nostro Dipartimento). Inoltre al teatro dell’ERSU abbiamo prioiettato una video-intervista, a cura di Pupa Garribba, ad una donna ebrea che viveva nel quartiere del ghetto di Roma e che era scampata, bambina, alla deportazione ad Auschwitz della sua intera famiglia.
Nel 2010 abbiamo dedicato la Giornata della memoria alla vita offesa delle donne, con un approfondimento della storia del campo di concentramento di Ravensbrück e la proiezione di brani del film le Rose di Ravensbrück, che contiene le testimonianze di Lidia Rolfi e di altre donne lì deportate, con relazioni di Enzo Collotti e Micaela Procaccia.
Nel 2011 abbiamo affrontato il tema della deportazione politica e razziale nell’Europa occupata in riferimento al ruolo di soggetto attivo e alla corresponsabilità dei governi e dei regimi collaborazionisti, dall’Italia alla Francia di Vichy, dall’Olanda agli Stati baltici, nonché da quello delle esperienze e delle storie di vita dei perseguitati, con relazioni di Enzo Collotti e di Pupa Garribba.
Sull’iniziativa che abbiamo programmato per quest’anno si dirà brevemente più oltre.
Da questa rassegna, sia pure sommaria, mi pare emergano chiaramente due punti. Il primo è la centralità della conoscenza storica nel processo di trasmissione della memoria. E’ questo un nodo essenziale su cui dobbiamo incentrare i nostri percorsi di formazione didattica a tutti i livelli. Non è privo di significato allora che l’Università si sia posta qui a Cagliari come soggetto promotore della Giornata della memoria. Ed è anche importante ricordare che, per gli studenti universitari, la manifestazione centrale è preceduta ogni anno da un Seminario di dieci ore rivolto a tutti i corsi di laurea della nostra Facoltà, che affronta i temi dell’antisemitismo come problema storico, dei caratteri dell’antisemitismo moderno, del razzismo e della persecuzione degli ebrei da parte dei regimi fascisti nell’Europa tra le due guerre mondiali, del sistema dei campi di concentramento e di sterminio nel quadro del cosiddetto Nuovo Ordine Europeo. In svariate occasioni, e ogni anno all’Istituto Scano, la Giornata della memoria è preceduta e seguita da incontri nelle scuole che avevano aderito alla manifestazione. Devo infine rimarcare la partecipazione al nostro incontro delle istituzioni preposte alla tutela del patrimonio delle fonti per la storia come l’Archivio di Stato di Cagliari e la Soprintendenza archivistica per la Sardegna, che tra l’altro hanno offerto un supporto insostituibile non solo per le nostre ricerche, ma anche per ulteriori percorsi formativi e didattici.
Mi è d’obbligo inoltre accennare a un’altra questione: a chi ci rivolgiamo, chi sono i nostri interlocutori? La manifestazione è rivolta in prima istanza alla città e all’intera cittadinanza di Cagliari, ma un soggetto privilegiato sono certamente i giovani, gli studenti di ogni ordine e grado e gli insegnanti, che hanno il compito quotidiano, tutt’altro che agevole e non di rado misconosciuto, di costruire i singoli percorsi formativi. Sarebbe anzi auspicabile che, nei limiti delle nostre forze, a partire dalla Giornata della memoria si costruissero delle reti permanenti di rapporti tra università e scuole proprio sui temi della storia, e non necessariamente e solo di quella contemporanea.
Ma vi è un ultimo tema, da segnalare, che riguarda il rapporto tra conoscenza storica e impegno civile. Io credo che questo nesso passi attraverso una ricostruzione dei legami complessi che uniscono passato e presente che abbia al centro due presupposti: il primo e più scontato è che la conoscenza storica fornisce strumenti critici fondamentali per interpretare la realtà di oggi e i problemi che attualmente viviamo, ci mette a confronto con esperienze storiche del passato che hanno profondamente segnato il secolo appena trascorso e la società in cui viviamo, ci aiuta a mettere a confronto diversi modelli sociali e sistemi di pensiero, e questo contro la tendenza, fortemente favorita dalla comunicazione politica e mediatica, all’azzeramento del passato e alla costrizione a vivere in un “presente permanente” (in quale misura di questo clima spirituale sia anche espressione il cosiddetto revisionismo storico, dovrebbe essere oggetto di una riflessione a parte).
Il secondo presupposto, di carattere etico-politico, è che le conquiste di civiltà sul piano della democrazia e dei diritti che soprattutto in Europa sono state conseguite al prezzo di grandi lotte e di enormi sacrifici tra la fine dell’800 e la seconda metà del ‘900, a cominciare dalle esperienze fondanti dell’antifascismo e della Resistenza, non sono affatto irreversibili e oggi più di ieri devono essere ogni giorno difese e in parte riconquistate, soprattutto nel momento in cui da oltre un ventennio le politiche pubbliche sembrano orientarsi al rovesciamento dei principi fondanti della rinascita democratica e civile dell’Europa così come si era configurata dopo la disfatta del nazi-fascismo: e mi riferisco qui alla nuova nozione di cittadinanza fondata sull’universalità dei diritti e sull’indissolubilità dei diritti politici e sociali, sulla costituzionalizzazione del lavoro, sulla piena occupazione e sulla civiltà del Welfare, sulla democrazia come partecipazione e non solo come delega, sul primato dell’interesse pubblico e sulla tutela dei beni comuni rispetto all’individualismo proprietario. Tutti questi principi sono almeno da vent’anni sotto attacco di fronte al dilagare di un “pensiero unico” fondato su una teologia del “libero mercato” e di fronte all’affermarsi di un nuovo modello sociale fondato sul predominio di ristrette tecnocrazie e oligarchie politiche, finanziarie, mediatiche, sulla esaltazione e sulla promozione della disuguaglianza, sulla precarietà, sull’incertezza e sulla distruzione di ogni principio di solidarietà e di coesione sociale. Da parte degli storici, dei sociologi degli economisti e dei giuristi più avvertiti è sempre più frequente il richiamo al fatto che, ove non si affermi una profonda inversione di tendenza sul piano politico, sociale e culturale, tutto ciò può provocare una crisi generale della democrazia, e tra questi, accanto ai premi Nobel Stiglitz e Gruckmann e a Stefano Rodotà  Luciano Gallino, non  è inutile segnalare il denso saggio di Carlo Galli, Il disagio della democrazia uscito in questi ultimi mesi presso la casa editrice Einaudi.
L’impetuoso riemergere in Europa e segnatamente in Italia di fenomeni che si ritenevano definitivamente tramontati come la xenofobia, il razzismo e l’antisemitismo, non di rado alimentati da provvedimenti legislativi e amministrativi che criminalizzano interi gruppi sociali, a cominciare dagli stranieri e dai Sinti e Rom, non sono un fatto episodico ma un aspetto centrale del nuovo modello di società che si è andato affermando, delle tensioni e dei conflitti che esso inevitabilmente comporta. Tutto ciò rischia oggi di riprodurre meccanismi di esclusione e di aggressività sociale, ma anche di passività e di indifferenza che furono già all’origine della tragedia dell’ebraismo europeo, qualunque siano oggi i soggetti contro cui si rivolgono. La precarietà, il declassamento e l’atomizzazione sociale sviluppano, infatti, il rifiuto della politica, il conformismo e l’isolamento delle persone, ma al tempo stesso creano una ricerca di sicurezza e di identità che illusoriamente si rivolge verso il clan, l’etnia, la comunità locale, l’appartenenza religiosa, oppure all’uomo del destino che è il fulcro di tutti i movimenti populisti, e che si contrappone all’universalismo e alla partecipazione democratica. Per questo non possiamo ricordare oggi Auschwitz senza interrogarci sui pericoli che minacciano la nostra democrazia, sulle nuove forme di precarizzazione e di esclusione di massa che espropriano il lavoro e le persone della propria dignità e sottraggono alle giovani generazioni la possibilità stessa di costruirsi un futuro. Non possiamo ricordare Auschwitz senza parlare della cultura della pace e della solidarietà,del dialogo tra le diverse culture. La memoria di Auschwitz deve allora rimanere una memoria viva, perché, come ci ha insegnato Primo Levi, non ci parla di un passato definitivamente tramontato: all’opposto pone interrogativi al nostro presente, educa all’autonomia nei confronti dell’autorità, degli stereotipi e delle rappresentazioni mitologiche, e proprio per questo può aiutarci  a immaginare e a progettare un futuro più rispondente ai  più autentici e profondi bisogni umani.
Ma veniamo al tema della Giornata della memoria del 2012, che abbiamo deciso di dedicare alla storia del Ghetto di Varsavia. La ghettizzazione nel territorio polacco del Governatorato generale e nei paesi baltici degli ebrei polacchi e poi di quelli del Grande Reich rappresenta, infatti, un luogo storico emblematico, anche se poco conosciuto al grande pubblico e ai nostri studenti, nell’ambito delle politiche messe in atto dai nazisti e da tutte le forze che li sostenevano volte alla distruzione dell’ebraismo europeo. Sul piano della storia della Shoah la ghettizzazione, tra il novembre del 1940 e il giugno del 1942, si colloca nella fase che immediatamente precede l’attivazione del sistema dei campi di sterminio. Nel Ghetto di Varsavia i processi di degradazione, di progressivo annientamento e di disumanizzazione delle vittime toccarono i livelli più estremi. Costrette in spazi urbani recintati e ristrettissimi, sottoposte alla totale discrezionalità dei persecutori, private dei mezzi di sussistenza ed esposte al sovraffollamento, alla miseria, al freddo, alla fame e alle epidemie, oltre 450.000 persone cominciarono a deperire e a morire al ritmo di 6000 ogni mese. Il Ghetto di Varsavia fu tutto questo. E tuttavia il disegno nazista di portare collettivamente i perseguitati al limite estremo della degradazione non riuscì a realizzarsi. Dalla società del ghetto, a dispetto delle condizioni spaventose determinate dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, verrà una spinta ad affermare la dignità delle persone che lì erano state rinchiuse. Essa si tradurrà nel tenace tentativo di lasciare alle future generazioni una traccia della storia del ghetto raccogliendo documentazione, scrivendo memoriali, rinchiudendoli in bottiglie e in recipienti e sotterrandoli o nascondendoli negli anfratti dei muri, di mantenere in vita le manifestazioni della vita culturale ebraica, la musica hyddish, il cabaret, oppure diffondendo la stampa e i manifesti clandestini, organizzando la solidarietà attraverso gli ospedali, le mense per i poveri e il celebre asilo del dr. Korschak, che volle condividere a Treblinka la sorte dei bambini a lui affidati, sino all’insurrezione armata del Ghetto di Varsavia, nell’aprile 1943. Attraverso l’intreccio di queste storie e di questi ambiti i singoli soggetti furono parte di quella “nuova umanità” che ha trovato la sua espressione più alta nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea. Il messaggio del Ghetto di Varsavia è allora veramente racchiuso in quella storia rivolta verso il futuro che abbiamo voluto mettere come epigrafe alla nostra locandina, e che contiene un monito affinché quella tragedia non debba più ripetersi, ma anche un invito a tutti quelli che sono venuti dopo a salvaguardarne e a trasmetterne la memoria, a impegnarsi oggi contro tutti i processi degenerativi che si svolgono ogni giorno sotto i nostri occhi, a non rassegnarsi, a non cedere alla tentazione dell’apatia, dell’indifferenza, della chiusura nel proprio particolare, o a voltare la testa dall’altra parte, come invece avvenne allora nella maggioranza dei casi a Varsavia e in moltissime altre città grandi e piccole dell’Europa occupata, e non solo di quella.
In sede di conclusione vorrei fare riferimento a uno straordinario film-documentario sul Ghetto di Varsavia che costituisce una eccezionale fonte documentale per la storia e che si raccomanda all’attenzione degli insegnanti. Si tratta di un audiovisivo in lingua polacca prodotto dal Centro di documentazione ebraica di Varsavia ed intitolato Requiem per 500.000. Le immagini furono girate in larga parte dalle stesse SS con lo scopo di mettere alla pubblica gogna l’asserita depravazione delle vittime per giustificarne la persecuzione e la segregazione, salvo poi astenersene perché si resero conto che quelle immagini costituivano la prova più eclatante del crimine contro l’umanità che stavano perpetrando. Scorrono così dinanzi a noi le prime immagini della Polonia occupata: gli eccidi della popolazione civile e il lavoro forzato, e poi la prima fase dell’internamento degli ebrei nel ghetto di Varsavia. E’ possibile anche vedere l’iniziale tentativo delle vittime di dare al ghetto un barlume di vita normale. I nazisti furono maestri nell’illudere le vittime che ogni gradino della persecuzione sarebbe stato l’ultimo, nel dividerle tra di loro e nell’imporre persino la loro collaborazione (vedremo la costituzione del Consiglio ebraico, il cui presidente peraltro si suicidò per non condividere la responsabilità della deportazione verso il campo di sterminio, e della polizia ebraica), o anche facendo sperare ai più agiati di poter sopravvivere con i loro mezzi. Nelle prime immagini ci si imbatte in una pasticceria, persino in un modestissimo ristorante, o anche in un funerale dignitoso, oppure si documenta il tentativo di creare istituzioni culturali, come il teatro-cabaret, o quelle della solidarietà, l’asilo del dott. Korschak. Ma poi, in un crescendo di tragedia greca, irrompe la realtà del lavoro forzato, la degradazione e la morte per fame e per epidemie di decine di migliaia di persone, al cui interno un  posto particolarmente tragico è riservato ai bambini. Infine, lo svuotamento del ghetto, con destinazione Treblinka, la stazione ferroviaria e i treni piombati, di cui il film costituisce una delle rarissime documentazioni visive. Ma. nella fase finale dell’operazione, ci imbattiamo in un fatto inaspettato. Le vittime non ubbidiscono più, anzi combattono. E’ l’insurrezione del Ghetto di Varsavia nell’aprile-maggio 1943, organizzata da una struttura militare comprendente i rappresentanti dei gruppi politici clandestini e costituita soprattutto da giovani (la vicenda è stata ricostruita in un mirabile libro-intervista da Marek Edelman, uno dei pochissimi protagonisti sopravvissuti). L’insurrezione sarebbe stata alla fine schiacciata non senza gravi perdite da parte degli occupanti: il ghetto fu raso al suolo e migliaia di persone furono uccise e bruciate. Ma questo episodio rimane uno dei capitoli più alti della Resistenza europea, un atto straordinario di coraggio e di  dignità umana che suona come un messaggio a non dimenticare e come un monito all’etica della solidarietà e della responsabilità per le generazioni a venire.

Venerdì
27 Gennaio 2012
Ore 9,30
Aula Magna ITI D. Scano
Via C. Cabras
Presentazione del libro e del documentario
Memorie in Comune
a cura di Pupa Garribba
prodotto dal Circolo Gianni Bosio e Mitinitaly
Ore 15,30
Aula Magna del Corpo aggiunto
delle Facoltà umanistiche
Piazza d’Armi
Introducono
Francesco Atzeni, Luisa Maria Plaisant,
Donatella Picciau
Il Ghetto di Varsavia:
dalla persecuzione all’insurrezione
Enzo Collotti
Da Varsavia a Treblinka:
l’asilo del dr. Janusz Korczak
e altri frammenti di una storia corale
Pupa Garribba
Vivere con dignità: la musica nel ghetto
Francesco Bachis

2 Commenti a “Giornata della memoria a Cagliari”

  1. MARIA RITA MURRONI scrive:

    Sono una laureanda nella Laurea Specialistica in Storia e Società a Cagliari.
    Ho partecipato diverse volte nella mia Facoltà alla Giornata della Memoria come semplice spettatrice, a volte portando persone al di fuori dell’università, proprio per sensibilizzare e far conoscere il problema.
    Dall’ormai lontano 2002 la Giornata della Memoria ha fatto scaturire in me il desiderio di conoscenza sull’argomento Ebrei e Nazismo e credo che questo abbia indotto le giovanissime e giovani generazioni ( non solo all’interno delle scuole sopracitate e della mia Facoltà di Lettere e Filosofia ) a informarsi e a riflettere. Purtroppo anche i più non giovanissimi hanno poca conoscenza dell’argomento e forse l’istituzione della Giornata della Memoria anche a Cagliari ha aperto uno spiraglio alla sete di conoscenza e di approffondimento di quello che stato un crimine della e verso la storia.Qui a Cagliari, prima che il Prof. Atzeni e il Prof. Natoli dessero impulso ad un così ricco e ben fatto lavoro, poca importanza si è data all’argomento, toccando così i cuori di ciascuno di noi e per chi ha assistito agli eventi in Facoltà lasciato un velo di struggente tristezza e la voglia di cambiare il mondo e soprattutto NON DIMENTICARE. Se è vero che la Storia si ripete ciò non dovrà MAI più ripetersi. Penso che sensibilizzare a più ampio raggio sia il dovere di ciascuno di noi e di chi ha il potere di farlo.Credo che continuare su questa strada sia la cosa più giusta per le generazioni future.

  2. joan oliva scrive:

    OBLIO DELL’ATTUALITA’
    Il 27 Gennaio ho sentito alla radio un’interessante intervista a Moni Ovadia dal titolo “Giornata della Memoria o Oblio dell’Attualità?” dove Moni Ovadia, con la sua grande capacità comunicativa, dimostra che il posto che nella visione razzista occupavano allora gli “ebrei orientali” oggi è occupato dai rom. Verso di loro ancora oggi si perpetuano di fatto innumerevoli forme di segregazione razziale. Anche nella nostra civilissima Italia.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI