Gli esiti nefasti della tendenza dell’uomo a non conservare nella sua memoria l’esperienza del passato

16 Febbraio 2017
Gianfranco Sabattini

L’uomo tende a non conservare il passato nella sua memoria; ciò non gli consente di interpretare il presente sulla base di una maggior ricchezza di informazioni. Anzi, è sulla base della conoscenza di quest’ultimo che, a volte, si presume di poter interpretare il passato, condannandosi in tal modo a rivivere di continuo, come se non ne fossero mai state sperimentate le conseguenze, gli errori precedentemente commessi. Questa amara e cruda realtà emerge dalla lettura dell’articolo “Tra XX e XXI secolo. La contemporaneità e le grandi crisi” di Francesco Soverina, apparso sul n. di ottobre-dicembre 2015 del periodico “Meridione. Sud e Nord del mondo”.

La tesi di fondo dell’autore è che la crisi esplosa nel 2007/2008, in seguito allo scoppio della bolla dei mutui subprime dei mercati immobiliari americani, induce a riflettere sugli effetti della Grande Depressione del 1929, anch’essa iniziata negli Stati Uniti d’America. Le due crisi, per quanto caratterizzate da dinamiche diverse, hanno però rivelato implicazioni sociali e politiche sulle quali sarebbe stata opportuna una considerazione ben maggiore di quella che invece è stata loro riservata.

Se il presente – afferma Soverina – è “inteso come una sorta di sismografo, una spia rivelatrice del passato, indagare e studiare quest’ultimo alla luce delle questioni che esso solleva serve a individuare dell’uno come dell’altro le linee essenziali […] di fattori ed aspetti reciprocamente condizionatisi”. Pur diverse, come si è detto, sul piano delle dinamiche economiche, le crisi del 1929/1932 e del 2007/2008, dalle quali è stata scossa la società capitalistica, “paiono avere un tratto in comune, il loro incrociarsi con profonde trasformazioni sul piano produttivo, sociale e politico, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale […]. In quest’ottica la storia del capitalismo, che è stato il motore di una sbalorditiva crescita, appare scandita da un andamento pendolare, dall’alternarsi di accelerazioni e frenate, seguite talvolta da stagnazioni più o meni prolungate”.

La Grande Depressione del 1929/1932 ha decretato la fine della “Banca mista”, la quale, assommando in sé le funzioni della raccolta del risparmio, dell’esercizio del credito commerciale e industriale e della funzione della “Banca d’investimento” con l’assunzione di partecipazioni azionarie nelle imprese, aveva dato origine, al di là e al di qua dell’Atlantico, alla posizione dominante dei mercati finanziari; questi, dopo aver dato luogo ad un’espansione dell’indebitamento delle imprese e ad un boom borsistico di natura speculativa, hanno causato lo scoppio della crisi. Le banche sono state inevitabilmente coinvolte, al punto da originare una reazione a catena che, attraverso i rapporti finanziari internazionali, ha provocato la diffusione della crisi in tutto il resto del mondo economicamente sviluppato.

Di fatto, si è trattato di una crisi bancaria generalizzata, con fallimenti di istituzioni finanziarie a catena, sia in America, che in Europa; le conseguenze sugli assetti del mondo della finanza sono stati di tre tipi: in primo luogo, si sono avuti diffusi processi di salvataggio delle banche in crisi da parte dello Stato; in secondo luogo, a causa dei fallimenti bancari, si sono avuti processi di ulteriore concentrazione del sistema bancario; infine, i rapporti tra banche e imprese, considerati la causa principale della crisi, hanno imposto l’urgenza che l’attività creditizia fosse rigidamente separata da quella di investimento.

Quanto sin qui esposto, con riferimento alla genesi della Grande Depressione del 1929/1932, costituisce l’esatta descrizione della genesi della Grande Recessione del 2007/2008; ciò non ostante, il modo in cui si è reagito alla cause e agli esiti della prima è stato del tutto ignorato alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, allorché sono state prese le decisioni con le quali sono state radicalmente cambiate le modalità di governo dell’economia, senza che ci si ricordasse di ciò che era accaduto nel periodo precedente la fine degli anni Venti.

Come nella recente Grande Recessione del 2007/2008, la crisi alla fine degli anni Trenta del secolo scorso è stata causata dalle bolle speculative indotte dalla finanziarizzazione dell’economia, cui hanno fatto seguito il collasso della produzione e degli scambi, la caduta dei redditi, la diffusione della povertà e l’aumento della disoccupazione; le sue radici originavano dal disordine monetario (crollo del gold standard) e da quello produttivo (ipertrofica espansione della capacità produttiva) determinati dalla Grande guerra. La Grande Depressione del 1929/1932, dopo i reiterati tentativi di contenerne le conseguenze attraverso le “vecchie ricette” di politica economica dell’anteguerra, ha costretto i governi a rinunciare alla fiducia pressoché assoluta riposta nel libero mercato, quindi ad elaborare un approccio più conveniente al il governo del sistema economico, riattivando la macchina produttiva, riassorbendo la disoccupazione e assicurando la stabilità dei prezzi.

Col nuovo approccio di politica economica è stato cambiato – afferma Soverina – “pressoché radicalmente il modo di porsi nei confronti dell’attività economica, affidandosi allo Stato”, il cui intervento è divenuto il “tratto unificante dell’insieme dei provvedimenti anti-crisi, sia pure dentro cornici politico-istituzionali sensibilmente diverse”. E’ così maturata una svolta di lungo periodo, riguardo al ruolo dello Stato nel governo dell’attività economica nei momenti di crisi, sfociata “nella ridefinizione dei rapporti tra politica ed economia”, nel senso che lo Stato ha assunto “nuovi compiti, diventando l’asse centrale dell’accumulazione capitalistica”; rispetto a questa, lo Stato stesso si è posto come regolatore dei processi economico-sociali, soprattutto alla luce degli esiti della “rivoluzione keynesiana” degli anni Trenta che, per garantire stabilità economica e politica alle singole comunità nazionali ha auspicato un “patto sociale” tra capitale e lavoro.

In un contesto caratterizzato da profonde tensioni sociali ed internazionali, i risultati dopo il 1932 sono stati solo parziali, anche per via dell’approssimarsi della Seconda guerra mondiale. Dalla crisi del 1928/1932 sarà possibile uscire definitivamente solo alla fine del conflitto, nel corso del quale gli Stati Uniti hanno iniziato a fare accettare ai Paesi loro alleati, a partire dalla conferenza di Bretton Woods del 1944, il sistema di regole e procedure elaborate nel periodo pre-bellico; sistema, questo, che ha costituito la base dei “trent’anni gloriosi 1945/1975”, durante i quali il capitalismo è entrato in un periodo di espansione “grazie all’adozione generalizzata di programmi keynesiani”, che hanno portato alla costruzione e diffusione dei sistemi di sicurezza sociale welfaristici.

Le politiche keynesiane, incentrate sulla regolazione dell’attività produttiva e del mercato sono state così all’origine della lunga fase di crescita e di sviluppo dei sistemi ad economia di mercato, sorretta e promossa dall’interazione virtuosa tra intervento dello Stato e azione ridistribuiva dei partiti socialdemocratici. L’interazione si è protratta con successo sino all’inizio degli anni Settanta, allorché il capitalismo ha dovuto subire gli esiti del clima di incertezza, originato da nuovi disordini monetari e da una nuova crisi dei sistemi produttivi e del sistema degli scambi internazionali.

Un primo sintomo della sopravveniente crisi si è manifestato nel 1971, allorché gli USA, con una decisione unilaterale, hanno deciso di abbandonare, pur conservando il dollaro come principale valuta di riferimento negli scambi internazionali, il sistema monetario internazionale nato con la conferenza di Bretton Woods; ad aggravare la situazione sono seguiti gli shock petroliferi del 1973 e 1979, nonché quello del debito dei Paesi in via di sviluppo. Pur in assenza degli esiti catastrofici della Grande Depressione del 1929/1932, il clima di incertezza degli anni Settanta ha determinato una rincorsa al rialzo tra prezzi e salari che ha originato il fenomeno della stagflazione, un mix di stagnazione e di inflazione. Costretto ad intervenire per risolvere i conflitti tra sindacati e imprese, dilaganti nel mercato del lavoro, lo Stato ha visto affievolirsi la sua capacità d’intervento, con conseguente tendenza, da un lato, all’aumento della disoccupazione e, dall’altro, ad una diminuzione del reddito e del tenore di vita.

In sostanza, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta si è aperta una nuova fase dell’evoluzione dei Paesi industrializzati ad economia di mercato, che ha visto di nuovo i mercati finanziari acquisire posizioni dominanti nell’intera economia, nel momento stesso in cui la globalizzazione dei mercati nazionali diveniva la nuova base del processo di accumulazione del capitalismo; gli anni Ottanta del secolo scorso, perciò, hanno segnato l’inizio di un momento di svolta del modo capitalistico di produrre, che ha permesso – afferma Soverina – “un esorbitante spazio di manovra alla finanza transnazionale, il cui potere è divenuto assolutamente sproporzionato rispetto agli altri fattori della produzione, specialmente nei confronti del lavoro”; in tutto ciò, il potere dei mercati finanziari è stato agevolato, oltre che dai cambiamenti interventi negli organi di governo del commercio internazionale (Organizzazione mondiale del commercio, Fondo monetario internazione e Banca mondiale), dall’abrogazione delle legislazioni che, dopo la Grande Depressione del 1929/1932, avevano fissato un rigido confine tra le banche addette alla raccolta del risparmio e banche d’investimento, impegnate nel finanziamento di operazioni di medio-lungo termine a favore del mondo della produzione.

Tutto ciò, com’è noto, a avvenuto dopo che sulle opposte sponde dell’Atlantico sono ascesi al potere due leader della destra anglosassone, Margaret Thatcher e Ronald Reagna; da allora, è infatti prevalso “con forza per un trentennio il vento del neoliberismo (il paradigma del ‘pensiero unico’) e della liberalizzazione finanziaria, mentre finiva sotto tiro il Welfare State e con esso i diritti sociali in tutte le declinazioni”. Il neoliberismo, dopo decenni di latenza all’interno del sodalizio della Mont Pelerin Society, e diffusosi per iniziativa di Friedrich Hayek e di Milton Friedman, ha contribuito ad affermare scelte di politica economica che sono valse a mettere i mercati finanziari nella condizione di rendere subalterna la politica, delegittimando l’intervento dello Stato, reso incapace di opporsi alla diffusione degli effetti destabilizzanti della speculazione finanziaria internazionale.

La prova di questa incapacità è offerta dal fatto che dopo l’inizio della Grande Recessione del 2007/2008, a seguito della crisi dei mutui americani subprime, tutti coloro nei quali si sono incorporate le strutture istituzionali dello Stato democratico, dimentichi dell’esperienza della Grande Depressione del 1029/1932, hanno saputo proporre solo politiche pubbliche di austerity, di contenimento della spesa pubblica, per soccorrere le banche che, sino al crollo dei mercati immobiliari americani, avevano contribuito ad aumentare la speculazione finanziaria. Anche in Italia, tutte le forze politiche e sociali, incluse quelle socialdemocratiche, protagoniste dei “gloriosi trent’anni 1945/1075”, sono state vittime del “pensiero unico” neoliberista; in nome dell’insostenibilità finanziaria della spesa pubblica destinata a salvaguardare il sistema di protezione sociale realizzato, è stata perseguita una rigida politica di austerità, il cui effetto è stato opposto a quello sperato, in quanto nei primi anni dell’attuale decennio il prodotto interno lordo è diminuito, con conseguente peggioramento del debito pubblico.

Diverse sono state le misure “messe in campo”, costituite prevalentemente da riforme della struttura del sistema-Paese, che sarebbero dovute servire ad aumentare la produttività della forza lavoro occupata e con essa del livello del prodotto interno lordo; nessuna delle misure, però, è stata concepita nel segno dell’esperienza vissuta dopo il “Great Crash” del 1929/1932. Se si collocano in una prospettiva storica la recente crisi e i suoi effetti, “appare evidente – conclude Soverina – il nesso tra la tempesta finanziaria scatenata nel 2008 e il trentennio avviato negli anni Ottanta”, allorché la destra neoliberista ha indicato nella soppressione di ogni forma di regolazione dei mercati finanziari e nella liberalizzazione del mercato le modalità per mettere da parte le politiche keynesiane, ritenute non più in grado di assicurare la crescita dell’economia e dell’accumulazione capitalistica. Inoltre, appare evidente il nesso fra quanto accaduto nel 1929 e il periodo successivo al fine della Grande guerra.

Anche allora, l’egemonia dei mercati finanziari e le presunte virtù taumaturgiche del libero mercato sono state la causa della Grande Depressione; allora, però, si è preso coscienza della necessità del ruolo regolatore dello Stato, mentre quanto è successo dopo l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso ha solo suggerito, come se l’esperienza del passato fosse priva di utili indicazioni, di procedere in termini opposti, inverando l’affermazione che vuole che chi ignora il proprio passato sia condannato necessariamente a riviverlo. Tuttavia, sulla smemoratezza del tutto disinteressata degli establishment dei sistemi sociali dopo gli anni Settanta e dopo lo scoppio della Grande Recessione 2008/2009 è lecito nutrire fondati dubbi.

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