I diritti umani, sessant’anni dopo

16 Dicembre 2008

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Manuela Scroccu

Primo Levi, nei versi iniziali che introducono il suo capolavoro, domandava Se questo è un uomo “che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per un pezzo di pane, che muore per un sì o per un no”. Queste parole così potenti interrogano ancora oggi un’umanità distratta che “vive sicura nelle sue tiepide case”, che trova, tornando a casa, “cibo caldo e visi amici”: può considerarsi un uomo chi è stato privato dei suoi diritti fondamentali? Lo scrittore torinese scrisse la sua opera fondamentale tra il dicembre del 1945 e il gennaio del 1947, spinto dall’urgenza di raccontare l’orrore dei campi di sterminio a cui era sopravvissuto. Il 10  dicembre 1948, quasi due anni dopo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava a Parigi la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”. Sessant’anni fa. Il primo articolo recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Era un mondo oltraggiato dalla barbarie della seconda guerra mondiale che sentiva la necessità di sancire sulla carta, di scolpire non solo nei cuori ma anche nel diritto internazionale, l’universalità e l’inalienabilità dei diritti che spettano a ciascun essere umano: “libertà di parola e di credo, libertà dal timore e dal bisogno”.  Fino alla seconda guerra mondiale, l’idea stessa di diritto internazionale non contemplava i diritti dei singoli individui ma si limitava a regolare i rapporti tra i vari Stati attraverso lo strumento giuridico dei trattati. Per questo motivo la Dichiarazione dei Diritti Umani, nonostante il carattere giuridico non vincolante proprio delle dichiarazioni di principi, rappresenta ancora oggi un documento fondamentale nella pratica dei diritti umani.  Il risveglio da quel sonno della ragione che aveva generato i mostri del nazismo e del fascismo, fu in grado di far nascere una nuova consapevolezza mondiale: la libertà, la giustizia e la pace non possono essere assicurate senza il riconoscimento della stessa dignità e degli stessi diritti, uguali e inalienabili, ad ogni membro della “famiglia umana”. Il passaggio formale dalla dichiarazione di principi al varo di vere e proprie norme giuridiche vincolanti in tema di tutela dei diritti fondamentali fu molto accidentato. Il clima generato dalla guerra fredda, infatti, avrebbe  pesantemente condizionato l’applicazione della Dichiarazione del ‘48 per tutta la seconda metà del Novecento: conflitti tra stati e tra etnie, genocidi spaventosi come quello cambogiano,  l’applicazione di pratiche come la pena di morte e la tortura, lo sfruttamento senza scrupoli delle risorse mondiali capaci di generare situazioni di estrema povertà nei paesi africani, asiatici e sudamericani, hanno rappresentato solo alcune delle più evidenti infrazioni  di quei trenta articoli. Nonostante ciò, attraverso l’introduzione di nuovi strumenti giuridici come i due Patti di New York del 1966 sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, o ancora la fondamentale Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata in Europa nel 1950, e le numerose convenzioni internazionali che di volta in volta hanno maggiormente specificato gli ambiti di difesa dei diritti dell’uomo, si è riusciti a costruire un sistema di tutela giuridica internazionale dei principi di libertà, di non discriminazione e di protezione dei fondamentali diritti umani. Un lungo cammino, dunque, che è sicuramente importante celebrare e ricordare. Tuttavia, fra i grandi principi ideali proclamati nelle Carte e nelle Convenzioni e l’applicazione concreta dei diritti umani nel mondo vi è una distanza talmente grande da apparire incolmabile, perché grandi e terribili sono state le violazioni dei diritti umani compiute in questi anni. Come non richiamare alla nostra memoria le barbarie di conflitti come quelli nell’ex Iugoslavia e del Kosovo, o gli spaventosi genocidi del Ruanda e quello recente del Darfur, avvenuti nella più completa, silente inazione delle potenze mondiali, sino ad arrivare alle guerre in Medioriente e alla “guerra permanente” scatenata dagli attentati dell’11 settembre, con tutte le conseguenze derivanti dalla crescita dell’attività terroristica jihadista su scala mondiale e dall’applicazione di provvedimenti assai discutibili come il Patriot Act o l’istituzione del carcere di Guantanamo. Ciò vale anche per i diritti “sociali”: può dirsi libero un uomo che non ha garantito il nutrimento, la casa, l’acqua e il necessario per assicurare a se e alla sua famiglia un’esistenza dignitosa? Ha senso parlare di libertà senza assicurare un’equa distribuzione delle risorse? Il mondo sta vivendo una forte trasformazione, le nuove tecnologie e la globalizzazione hanno fatto emergere nuovi diritti, come il diritto alla riservatezza o il diritto ad un ambiente naturale e sano. Vi sono minoranze che non avevano mai avuto legittimità politica e sociale e che ora chiedono nuove forme di tutela. I flussi migratori che stanno interessando l’occidente pongono nuovi problemi in tema di tutela delle minoranze culturali e linguistiche. Questa è la realtà che ci troviamo a vivere. Può un mondo così complesso essere ancora compatibile con il concetto di universalità dei diritti? Sessant’anni fa il mondo credette a quest’“utopia realizzabile”: che ogni persona debba essere rispettata nella sua dignità, sempre, comunque e dovunque. È un sogno giusto in cui ognuno di noi può fare la sua parte per ridare vitalità ad un documento fondamentale come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che altrimenti rischia di diventare un bellissimo ma inutile monumento alle buone intenzioni dell’umanità.

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