I ladri di cavalli e sa mama de dolore

16 Ottobre 2009

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Natalino Piras

La literatur è sempre lì, preveggenza di cronaca, quasi profezia. Sta al bordo del cuore di tenebra fin quando non decide di scendere, di traversarlo. La literatur sa che le storie si ripetono così come si sono ripetute. E si ripeteranno ancora se non ci sarà un dio della ragione e della pietà a fermare gli assassini. Non serve a niente essere moderni se si uccide all’antica, se il mare d’erba diventa campo di sangue. Se il mare che circonda la montagna e ne intride le cavità partorisce mostri. Ahi! la sabbia lucente: scortica i piedi nudi. È sale sulla ferita di questa nostra irrisolta, barbarica modernità.  Osservate, vedete! Sentite il lamento di una madre, forse unica, forse  voce di un coro millenario, che non vuole sapere di dissolversi, una mama de dolore, una perenne madre dell’ucciso. La sua è voce forte. La sua è voce di silenzio.  La sua è voce tenue, che si ingroviglia, di una  che si lascia morire, a cui non interessa più vivere. Non dorme. Non mangia, da quando le manca il figlio, magra da fare paura, non ha nessun interesse costei, mama de dolore. Un motivo portante, un figlio, un bene, le è stato sottratto. Era giovane, il figlio. Dice il Qohelet, il libro dell’Ecclesiaste che è pure un grande frammento di literatur: “Goditi, o giovane, la giovinezza , e ti sia lieto il cuore nei giorni di tua gioventù, strappa  dal tuo corpo il dolore,  perché capelli neri e giovinezza sono un soffio”. E invece il figlio si è perso nella giovinezza, gliela hanno fatta perdere, il figlio fucilato in un  sentiero tra due muri ancora a secco, che mettono in comunicazione l’ovile e  capannoni di archeologia industriale. Ma si può parlare di giovinezza in questa dura montagna dove ancora scorazzano abigei e ladri di cavalli? Dove i fratelli  ancora li massacrano a due a due, come vuole una inveterata tradizione? Eppure ciascun figlio è pulito per la madre, acqua di fonte, dolce come il miele, buono come il pane, dal sorriso radioso. Se esistesse il senso della giovinezza, nella dura montagna con le cavità intrise di mare amaro, di miele amaro,  le viscere del tempo violate dalla corruzione del tempo. Ci sono in questa nostra dura  montagna tutti gli odori del selvatico ma sono contaminati da altri di scoria industriale, a volte intensi, di fiori in calore, a tratti putenti, di varechina.  A volte mi sembra – così sembra alla mama di dolore –  che nella dura montagna non ci siano giovani. Ma sì che ci sono. Siamo noi stessi, della generazione della mama di dolore,  che ci facciamo carico della loro assenza, del loro esserci solo come soma e come moda, senza spirito né stile. Qui come in qualsiasi altra parte del mondo. La mama di dolore pecca pure di superbia ma è così. Provate a percorrere le strade della montagna quando le spazza il vento. Qui i giovani sono come i loro stereotipi, la merce che arricchisce certi scrittori che scrivono quanto i forestieri vogliono che i locali scrivano del loro esotico e folklorico luogo. Ma non  importa questo, alla mama di dolore. Perlomeno non gliene importa più.  Non vede neppure più  altri giovani, pastori e studenti, billutinos vestiti come si deve e le ragazze che di loro si innamorano. In questa  dura montagna c’è tanto freddo quando fa freddo. Ma la gente di qui lo sopporta, imbossulate le donne in cappottoni di panno nero con colletto peloso, camminare pesante come quello degli uomini quando le vedi per strada. Le poche rustiche rimaste girano ancora in scialle di blu e marrone buttati sopra la testa, rattenuti da mani come artigli sulla faccia, come becco aquilastro. E noi diciamo che questa gente non è come noi. Ma siamo noi  rimasti al tempo dei nostri bisavoli che facevano guerra civile per le terre e chi poteva stipendiava servi e soldati per una causa che comunque produceva solo disamistade, faida, malessere, morti  ammazzati di faida annunciati e portati da notti di vento. Di questa gente come noi c’è da averne pena perché sono divorati dalla sofferenza e dalla solitudine. Ne sono mangiati. Ma c’è da averne anche paura. Piove sempre sulla montagna scavata dal mare, quando piove, anche quando altrove è ancora bel tempo. Qui quando piove fa più freddo. È  il freddo a condizionare  la storia della gente. Tu pensa a dove c’è il sole come clima: sono più miti. Non così  nella nostra dura montagna. Il clima freddo naturale e quello freddo indotto ci forgia, ci tempra e ci devasta. E il vento. Che qui non è caldo ma sempre gelido. E di voci di furia, di mai sopite erinni. “E io, mama de dolore,  io che ho visto mio figlio ucciso  dopo che lo hanno ritrovato! Non volevano mostrarmelo ma io l’ho visto, fracassato e scempiato, figlio mio macellato!” Non c’è niente che  interessi più la mama di dolore. Ha la faccia di aringa secca che ricorda un gioco bambino: “Lì è morta Maria affogata e lì stesso l’hanno interrata”, questa donna vestita di nero come Bernarda Alba lorchiana e di gramaglia grigia come un qualsiasi corpo di periferia sottoproletaria, di bidonville metropolitana.  Il figlio era un possibile sogno, vederlo vivo, determinato ma indifeso, buono di cuore anche se aveva amici cattivi, abigei e ladri di cavalli, di quelli moderni. La voce della mama di dolore decresceva  in sussurro che però non consolava l’udito, un sussurro che si abbassava al grado più atono per poi risalire in forte intensità, terribile grido.

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