I tre trattati che riscriveranno il mercato globale

1 Dicembre 2015
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Irene Masala

Per alcuni saranno la spinta decisiva per l’uscita dalla crisi e la massima realizzazione del libero mercato, per altri rappresentano una pericolosa gabbia dorata le cui sbarre sarebbero composte da perdita di tutele e diritti, una sorta di incubo per consumatori e ambiente.
Queste le premesse che accompagnano i tre trattati che cambieranno, nel bene o nel male a seconda della propria visione politica, il volto e le regole del mercato globale. Il primo di questi partenariati, il TPP (Trans-Pacific Partnership) non è altro che l’omologo sul versante Pacifico del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, conosciuto con l’acronimo di TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Il terzo e ultimo componente di questi accordi è il TISA (Trade in Services Agreement), trattato relativo ai servizi che si occupa con particolare attenzione di quelli finanziari.

Vediamo nello specifico ognuno di questi tre trattati e la strategia di cui fanno parte, che può essere analizzata nell’ottica del Pivot to Asia degli Stati Uniti, e ha come obiettivo quello di compattare lo schieramento degli Usa e dei suoi alleati globalizzando gli standard commerciali e giuridici del sistema di scambi, che nel lungo periodo porterà ad adottare una struttura omogenea dal punto di vista politico ed economico. Non è un caso che da queste trattative siano totalmente esclusi i paesi con le maggiori economie emergenti del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).

Il primo ad essere firmato è stato il TPP. Il 5 ottobre scorso il Partenariato Trans Pacifico è stato firmato ad Atlanta da 12 Paesi, che coprono in totale il 40% della produzione mondiale: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Stati Uniti, Giappone, Messico, Perù, Vietnam, Singapore, Cile, Brunei e Malesia. Ovviamente dall’accordo vi è un’unica grande esclusa, la Cina, sempre secondo la strategia economica militare del Pivot to Asia che Obama ha sottilmente ricordato in un’affermazione a seguito della firma dell’accordo: “Non possiamo lasciar scrivere le regole dell’economia globale a Paesi come la Cina”.

Con la firma del 5 ottobre è iniziato il periodo di tre mesi che precede il voto del Congresso e dei governi degli altri Paesi che saranno chiamato ad approvare o rifiutare l’accordo. Nato come evoluzione del Pacific Four (P4, accordo nato del 2005 per l’istituzione di un’area di libero scambio nei settori merci, servizi e finanza tra Nuova Zelanda, Cile, Sultanato del Brunei e Singapore) sotto impulso di Barak Obama pochi mesi dopo la sua elezione nel 2009, è destinato a intervenire in quelle zone (Sud America, grazie alla presenza di Perù e Cile, e Sud est asiatico, in chiave di contenimento della Cina) considerate fondamentali per la strategia geopolitica americana.

Ci sono voluti quasi otto anni di trattative ma alla fine Obama potrebbe mettere a segno l’ultimo grande colpo economico di fine mandato. Il presidente Usa ha inoltre ottenuto la fast track (Fast Track Negotiating Authority for trade agreement) ovvero l’autorità riconosciuta al presidente degli Stati Uniti di negoziare accordi internazionali che il Congresso potrà approvare o rifiutare ma non emendare. I punti nodali affrontati sono stati diversi, dal maggior protezionismo sui brevetti farmaceutici voluto dagli Usa al settore delle automobili, che sta particolarmente a cuore al Giappone, passando per quello dei latticini e della proprietà intellettuale. Ma gli ostacoli hanno superato il tavolo delle trattative arrivando direttamente sul piano della politica e dell’opinione pubblica.

A osteggiare l’accordo infatti non sono solo i cittadini dei singoli paesi e varie Ong e associazioni ambientaliste, compresa Sierra Club, la più grande associazione per la tutela dell’ambiente negli Usa, ma anche i rappresentati della sinistra democratica, tra tutti Elizabeth Warren, ex consigliere economico di Obama, contraria persino alla concessione del fast track. Avverso all’accordo anche il candidato repubblicano Donald Trump, mentre Hillary Clinton adotta per ora la strategia dell’attesa, cautela necessaria dopo che anche l’Alf-Cio, la confederazione dei sindacati Usa il cui sostegno è indispensabile per le elezioni 2016, ha espresso più di una perplessità sui trattati.
Le principali preoccupazioni vertono sulla sopravvivenza del piccolo e medio commercio su scala locale e nazionale, minata dalla mole di agevolazioni fiscali di cui usufruirebbero le multinazionali e dalla difesa dei brevetti da parte delle grandi aziende che col tempo soffocherebbe le piccole e medie imprese. In sintesi si sottolinea il rischio di una sempre maggiore perdita della sovranità nazionale sul settore economico a vantaggio di interessi corporativi, sovra e multinazionali.

Il secondo trattato, il TTIP, è praticamente lo stesso tipo di accordo articolato sul versante Atlantico: un accordo di libero scambio basato sull’eliminazione dei dazi doganali e di tutte quelle barriere non tariffarie, le cui trattative tra Stati Uniti e Unione Europea sono iniziate nel 2013. Sin dall’inizio, ciò che ha destato maggiori sospetti è stato il grado di segretezza che avvolgeva l’esistenza stessa di un accordo di partenariato, tanto che nell’ottobre del 2014, su iniziativa italiana, le trattative sono state rese parzialmente pubbliche e consultabili sul sito della Commissione Europea. Per i numerosi sostenitori del TTIP, questo sarebbe la chiave di volta per la ripresa economica con la creazione della più grande area di scambio esistente, considerando che Usa e Ue sono insieme un terzo del mercato globale e la metà del Pil mondiale. Inoltre porterebbe all’apertura del mercato americano degli appalti pubblici, attualmente off limits per gli stranieri.

Secondo i detrattori, invece, ci sarebbe più di un punto critico. Stando al report pubblicato su un working paper pubblicato dal dipartimento Global Development And Environment Institute della Tufts University del Massachusetts, il TTIP provocherebbe un restringimento del mercato europeo: “Il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti – a detta dei suoi promotori – stimolerà la crescita in Europa e negli Stati Uniti. Proiezioni fatte proprie dalla Commissione Europea indicano vantaggi netti positivi, anche se trascurabili, in termini di PIL e di redditi individuali. Il paradosso, per una politica economica sostenuta dalla Commissione Europea, è che le proiezioni mettono anche in evidenza che qualsiasi vantaggio si realizzi nel commercio transatlantico esso avverrà a spese del commercio intraeuropeo, ribaltando il processo di integrazione economica europea”, questo quanto si legge nell’incipit del working paper.

La parte più problematica dell’accordo riguarda l’eliminazione di quelle barriere non tariffarie, costituite da differenze nei regolamenti tecnici, nelle regole sanitarie e alimentari e sugli standard qualitativi dei prodotti, e l’introduzione dell’Investor to State Dispute Settlement (Isds), su proposta americana. Questo strumento del diritto pubblico internazionale non nasce col TTIP ma è già presente in un gran numero di trattai bilaterali per gli investimenti, NAFTA compreso, e garantisce a un imprenditore o investitore straniero di richiedere un arbitrato internazionale sulla risoluzione delle controversie nei confronti di un governo o Stato. L’Isds è stato immediatamente contrastato dalla Germania ed è il tema che più ha diviso i partecipanti durante l’ultimo incontro di trattative svoltosi il 23 ottobre a Miami.

Altri punti critici riguardano la qualità dei prodotti alimentari, gli appalti, i brevetti e il settore farmaceutico, la tutela dell’ambiente e così via. Secondo il primo ministro italiano Matteo Renzi, e secondo molti dei leader europei, il TTIP avrebbe l’appoggio totale e incondizionato del governo. Una delle poche voci fuori dal coro istituzionale è quella di Marine Le Pen: “È fondamentale che i francesi sappiano contenuti e motivazioni del TTIP per poterli combattere. I nostri concittadini devono poter scegliere il proprio futuro, devono poter stabilire un modello di società che gli vada bene, e non uno che viene imposto da multinazionali affamate di profitti, da tecnocrati di Bruxelles venduti alle lobby, o da politici dell’UMP che sono asserviti ai tecnocrati”.

Last but not least arriva il TISA, l’accordo per la liberalizzazione dei servizi, le cui trattative con base a Ginevra raggiungono estremi livelli di segretezza, anche rispetto ai precedenti. Il Tisa coinvolge e riunisce le nazioni aderenti al TPP e al TTIP (esclusi il Sultanato del Brunei, la Malaysia e il Vietnam) più la partecipazione di Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera, Turchia, Israele, Taiwan, Hong Kong, Pakistan, Sud Corea in Asia, Colombia, Costa Rica, Panama e Paraguay. Sempre strategicamente assenti gli ormai isolati Paesi del BRICS. Le uniche informazioni che circolano sul TISA si devono a Wikileaks che ha pubblicato una parte del documento in esclusiva. L’obiettivo ultimo del trattato sarebbe quello di deregolamentare il settore finanziario, incentivare privatizzazioni e liberalizzazioni dei servizi nei settori dell’educazione, difesa e sanità, il controllo e lo stoccaggio dei dati personali dei cittadini e la diminuzione dei controlli per le transazioni on line.

L’insieme di questi trattati deve essere analizzata, però, non sono da un punto di vista economico, vincolato alla dicotomia libero scambio contro protezionismo, ma deve essere letto anche in chiave geopolitica. Ogni accordo finisce esattamente dove inizia l’altro, creando una barriera economico-giuridica che escluderà dai giochi le economie emergenti, creando nuovi e imprevedibili squilibri a livello globale e, con essi, nuove e potenzialmente pericolose alleanze.

Foto di Francesca Corona

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