Rigurgiti d’identità

1 Febbraio 2008

STRANIERI
Giulio Angioni

Cos’è e che ne è, oggi, di ciò che può e deve essere detta identità occidentale, che attizza e arma certi suoi nemici, in primis l’Islam più o meno fondamentalista, tanto quanto attizza e arma certi diretti interessati, in senso proprio nel caso serissimo di Bush e in altro senso nei casi nostrani forse meno seri alla Oriana Fallaci?
Ora, l’essere e il sentirsi occidentale (euroccidentale, magari anche bianco, civilizzato, erede del meglio che si è fatto al mondo) e la nozione di resto del mondo sono cose vaghe, vischiose e anche contraddittorie, ma la vaghezza delle idee e dei sentimenti non sono né causa né segno di una loro scarsa forza o di una loro trascurabile importanza, nemmeno quando oggi si tende a cucinare tutto in salse identitarie, storiche, religiose, localistiche e così via, banalizzando una cosa serissima anche per questa sua banalizzazione.
“Io non sono razzista, però…” E il vero però è che anche certi spiriti magni sentono e a volte proclamano la superiorità occidentale oggi come ieri. Ma il razzismo vero di oggi è un razzismo storico e culturale, non più biologico. E’ più accorto e pervasivo, più aggiornato e meno rozzo, anche se ogni tanto perde troppi ritegni, e poi non giudica e non spiega: gli basta constatare la propria superiorità, ritenuta troppo evidente per poter essere messa in dubbio, dentro e fuori l’Occidente.
Il razzismo odierno, mite fino alle guerre jugoslave e all’attentato alle Torri Gemelle, vuole del resto tenere conto delle diversità, e soprattutto constata quella diversità che fa constatare una inoppugnabile superiorità occidentale prima di tutto sul piano della cultura materiale, della tecnica come strumento umano per servirsi del mondo ai propri fini. L’Occidente manda le sonde nel cosmo, il Terzo Mondo non riesce a sfamarsi “lasciato a sé stesso”. Il consumismo, dal punto di vista delle necessità elementari, è obiettivamente superiore alla fame, per tutti, anche se nella cultura cristiana c’è l’apprezzamento del paradosso della superiorità morale e spirituale del povero, e soprattutto di chi si fa povero tra i poveri.
Contro il generico buonismo multiculturalista e magari terzomondista bisogna ben guardare alle difficoltà delle convivenze tra diversi, anche quando è una ricchezza. Si sa che il diverso da sé ha suscitato di solito reazioni che oscillano tra il difensivo e l’aggressivo, spesso con lo sviluppo di sentimenti di superiorità. Lo si chiami razzismo, intolleranza, etnocentrismo, si tratta di un guaio tanto antico quanto il sentimento di appartenenza, di identità. L’equilibrio tra sentimento di sé e modo di rapportarsi all’altro da sé risulta storicamente arduo e variegato, e che è ricorrente la tendenza a ridurre la diversità a inferiorità, per cui il diverso diventa qualcosa di peggiore e di pericoloso, a volte capro espiatorio, oppure si tende ad assimilare l’altro a se stessi negandogli ogni diversità, per cui l’uguaglianza pretende ridursi a identità. Ambedue gli atteggiamenti, l’uno aggressivo e l’altro a volte implacabilmente caritativo, sono presenti nella nostra civiltà almeno fin dalle origini di ciò che chiamiamo epoca moderna, simbolicamente incominciata con la scoperta di Colombo e l’inizio dei grandi colonialismi extraeuropei, e oggi sono in una crisi di reviviscenza inaspettata.
La cultura di sinistra è, anche suo malgrado, responsabile della divulgazione dell’idea che l’atteggiamento razzista, inferiorizzante verso l’altro, l’etnocentrismo più in generale, sia qualcosa di universale, qualcosa di biologico geneticamente ereditario, che avremmo tra l’altro in comune con altri animali. Per cui sarebbe un obbligo per tutti, educatori ed educati, mettere la sordina e cercare di eliminare questa propensione della specie umana a inferiorizzare il diverso. Per cui il razzismo si supererebbe come si fa imparando a controllare gli sfinteri da bambini. E anche l’aver compreso questo, e l’aver sviluppato atteggiamenti di tolleranza, è attribuito da certuni alla superiorità della cultura o civiltà occidentale, presentata sbrigativamente come la sola capace di “rieducarsi” in senso non etnocentrico e non razzistico.
Viene qui da considerare che in certi con voce in capitolo questo argomentare raggiunge livelli di raffinatezza molto sottili. Ma almeno una comune fallacia è spesso evidente: l’etnocentrismo non è ineluttabile e non è universale. Tanto meno i suoi estremismi razzisti. La storia e l’etnografia ci mostrano casi di non inferiorizzazione del diverso non molto meno numerosi dei casi di sua inferiorizzazione. Anzi, non è per nulla raro l’atteggiamento di “superiorizzazione” del diverso, dell’estraneo, dello straniero. Un tale fenomeno di “superiorizzazione” dell’altro è posto da certuni all’origine della disfatta repentina degli imperi azteco e inca al primo contatto con la masnada dei Cortez e dei Pizarro. Ma senza fare esempi esotici, questo è il caso del senso comune in Sardegna, dove la storia ha fatto sì che, come è successo per tante altre genti sottomesse a potenze esterne, chi viene da fuori è “istintivamente” sentito e considerato migliore, superiore, più capace in questo o in quest’altro, mentre i locali sono definiti “piccoli neri e tonti”. In Sardegna infatti il forestiero troppe volte è arrivato in armi, dominatore, padrone, signore, gallo, non gallina su cui esercitare il diritto di beccata, finché non è arrivato il successivo a renderlo cappone. Ora però il forestiero sbarca nelle isole italiane anche da poveraccio, zingaro o africano, e non ci arriva più solo con la sua aura esotica, negretto di gesso da usare come soprammobile: ma il sentimento di superiorità occidentale è a disposizione da tempo anche qui, sebbene l’essere a pieno titolo occidentali, europei, si faccia ogni tanto problematico, con crisi di identità perché una delle preoccupazioni più forti di luoghi occidentali marginali come la Sardegna è appunto quella di “mantenersi” in Occidente, davanti al pericolo di scivolare verso l’Africa vicina, verso il Terzo Mondo.
Chi finora si è abituato a ritenere che il razzismo oggi sia costituito principalmente dalle imprese di giovinastri come i naziskins, si rende incapace di capire che, da occidentale, egli è compartecipe di una nuova forma di razzismo che lo fa quanto prima sentire al mondo in una posizione di superiorità, ovvia e indiscussa nei più, e, se discussa, quasi solo in funzione di critica ai nostri costumi alla maniera della critica borghese illuministica del tipo delle Lettere persiane, o è criticato per la sua remissività disfattista.
Questa forme odierne di senso di superiorità occidentale, fino a qualche anno fa mite e condiscendente, aliena da violenze e intolleranze, anzi abituato a essere collaborativo, caritatevole, cristianamente ecumenico, terzomondista, relativista, pietoso, filantropico, esoticheggiante, “etnico”, oltre che ovviamente anticoloniale, e poi mani tese ai disagi del Sud povero, ma, attenzione: in fondo non in modi sostanzialmente dissimili da quando il fardello dell’uomo bianco era la cristianizzazione e poi l’incivilimento dei barbari e dei selvaggi, per mezzo delle varie forme di colonialismo. L’occidentale ritiene incoercibilmente di avere ancor sempre principalmente da dare e da insegnare, e ciò è sentito come la sua missione al mondo, anche se oggi la maggioranza degli occidentali colti sorride delle tre C sette ottocentesche che l’europeo aveva la missione di portare dappertutto nel mondo: Cristianesimo, Civiltà, Commercio. O, in una parola, il progresso. E questo allora era il meglio, perché aveva forse maggior forza anche l’idea che il non europeo, il selvaggio, il primitivo, il colonizzato fosse incapace di raggiungere l’europeo in cima alla scala evolutiva, idea proclamata a chiare lettere e praticata con la violenza dai fascismi novecenteschi di ogni latitudine.
E’ come se i tipi nuovi di etnocentrismo o esclusivismo o razzismo storico culturale, antico nel suo germe originario, stessero nei “geni” costitutivi della cultura occidentale, del modo occidentale di essere e di sentirsi al mondo. E che ogni occidentale lo assorba per impregnazione fin dalla più tenera età. E che per tutti anche in Italia rimanga ancora un’ovvietà incontestata, la cui messa in causa provoca disagio.

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