Quel Sessantotto di rivoluzione

16 Aprile 2008

BOLLE DI SAPONE E SANPIETRINI
Francesco Cocco

Veramente stimolante l’articolo di Manuela Scroccu sul Sessantotto pubblicato nel precedente numero del Manifesto Sardo. E’ un breve e acuto saggio con tanti interrogativi sull’ “anno che ha fatto saltare il mondo”. Ma siamo proprio certi che 40 anni fa il mondo sia “saltato”? Che venne vissuta un’epopea rivoluzionaria? Che occorrerebbe ripetere quell’esperienza? O non è piuttosto l’inizio dell’ accentuarsi delle disuguaglianze in Occidente? Credo che il quarantesimo sarà occasione per riflettere su questi e tanti altri interrogativi.
Vi sono molti, anche tra i protagonisti di quegli eventi, che oggi respingono il ‘68 perché –a loro dire- portatore di alcune grandi negatività (crisi della famiglia, decadenza della società, genesi del terrorismo). Mi pare una posizione sbagliata quella di coloro che avendo ricercato e accettato i vantaggi della tanto “aborrita società borghese” sentono da neofiti il bisogno di testimoniare la nuova fede. Del resto in questi tempi ci è dato constatare che tra i peggiori clericali vi sono molti teo-com che alcuni lustri fa nutrivano saccente fastidio verso qualsiasi forma di religiosità. Così come taluni aspetti del nuovo anticomunismo sono espressi da “politici” che al PCI devono i loro cursus honorum istituzionali. Evidentemente la nostra è un’ epoca di facili conversioni a 180 gradi !
Certamente al Sessantotto dobbiamo molto di quel cambiamento che ci ha dato un più alto tasso di democraticità nel costume sociale. Ed è già tanto: di per sé un grande merito storico. Ma avrei qualche dubbio a considerare quegli eventi come un paradigma da riproporre nel presente. Questo non solo per la semplice constatazione che in 40 anni la società è profondamente mutata ma soprattutto perché, ancor più di allora, vi è oggi la necessita di un progetto sociale, che sembrò mancare in quegli eventi. Formulo queste considerazioni perché al di là delle apparenze quel che mancò nel ‘68 fu una realistica alternativa, capace d’incidere lentamente ma progressivamente nella società.
Sappiamo che anche le rivoluzioni (quelle vere) che sembrano scaturire all’improvviso hanno bisogno di una lunga e faticosa preparazione. Così mi chiedo se il Sessantotto non sia stato l’inizio della fine del grande progetto storico portato avanti in oltre un secolo dal movimento operaio. Se, soprattutto in Italia, esso non fu il sostanziale abbandono della via intrapresa dai partiti della sinistra storica (con molti elementi di omogeneità e di unità più che di divergenza), che presupponeva un progetto sociale seriamente ancorato alla realtà.
Abitualmente siamo portati a credere che certa storia della sinistra in Occidente sia finita con la caduta del muro di Berlino, in realtà era finita da almeno 20 anni. E se andiamo ad esaminare con un minimo di occhio critico il Sessantotto, non è difficile scorgervi i segni di un evidente processo di disfacimento della sinistra, in ritardo rispetto alla metastasi già iniziata nell’ URSS con l’avvento al potere di Breznev, ovvero dello stalinismo, privato oltretutto d’ogni residuo d’idealità.
Naturalmente sarebbe molto sciocco pensare che tutto il movimento del ’68 si sia svolto secondo uno schema semplificato. Accanto al fiorire di certo massimalismo acritico ci fu chi, al contrario, vide un’occasione per un superamento della chiusura in cui la sinistra sembrava volersi impantanare.
Ma quello che mancò, anche a coloro che nel Sessantotto avevano una lucida visione degli eventi, fu la volontà di tenere ben ferma la barra del timone sul solco della miglior tradizione del movimento operaio che postulava un progetto di lunga lena. Mancò la capacità di evitare le facili suggestioni del momento, che poi nel tempo hanno contribuito, specie in Italia, ad annacquare persino le virtù della resistenza democratica. Come potremmo diversamente leggere certe propensioni odierne della classe lavoratrice verso la Lega-Nord ed il P.d.L? Il discorso è complesso e va evitato ogni semplicistico schematismo, ma nel dissolvimento seguito al ’68 di certi caratteri storici del movimento operaio, e dei partiti che ad esso si richiamavano, va individuata in non piccola misura la crisi politica ed istituzionale che stiamo attraversando.
Certe parole d’ordine scaturite da quel movimento hanno finito per essere la negazione di qualsiasi serio processo di trasformazione della società italiana, che poi come sua conseguenza logica ha finito per sfociare nel berlusconismo. Cioè in quell’amalgama di negatività che hanno preso corpo molto prima della discesa in campo di Berlusconi, e che riferiamo al suo nome solo perché ha avuto l’intuito e la capacità di tradurle in forma politica.
Si vadano a ricercare nella pubblicistica del tempo certe parole d’ordine di 40 anni fa che finivano per essere sintesi delle posizioni generali del movimento. Che senso avevano slogan come “vogliamo tutto e subito” e “la fantasia al potere” se non quello di appagare appetiti più confacenti alla tradizione borghese che al mondo del lavoro? E cos’era l’ “esproprio proletario” se non l’esaltazione di un disordine istituzionalizzato che mezzo secolo prima era stato brodo di coltura del fascismo? Ed ancora l’ esaltazione dell’egualitarismo senza merito, se non il rifiuto di quel duro sforzo al quale le masse lavoratrici, secondo Gramsci, si sarebbero dovute sottoporre per uscire dalla subalternità e porsi in un ottica di egemonia. E’ significativo che in quel momento il pensiero gramsciano sia stato appannato, forse proprio perché postulava l’esatto contrario: cioè una strategia di lungo periodo.
Nel bel saggio di Manuela c’è una frase ricca di significato (“I ventenni di allora sono quelli che hanno condannato i giovani ai margini della vita politica”) che la dice lunga più di qualsiasi dissertazione su quello che alla fine è stato il ‘68. Un autentico processo rivoluzionario è, per sua natura, liberazione di energie, mai chiusura. Esso agisce nell’interesse generale e non può essere arroccamento in interessi corporativi, di gruppo o generazionali.
Ed allora anch’io ritengo giusto auspicare una “nuova esplosione rigenerante”di fermenti giovanili. Ma se non vogliamo che essa sia soltanto una grande esplosione di rabbia senza prospettive occorre un lavoro di lunga lena. Anche perché non siamo più in presenza di una società con le sicurezze degli anni sessanta ma in un mondo senza certezze e prospettive, e la mancanza di fiducia nel domani può generare terribili mostri.

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