Il corpo della donna

16 Marzo 2009

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Manuela Scroccu

Mimose per tutti e tanti auguri. L’8 marzo è, da qualche anno a questa parte, il giorno in cui noi donne ci chiediamo “bene, e ora quest’anno vediamo di quanto siamo tornate indietro”. Cominciamo da qui. Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi hanno girato un documentario intitolato “Il corpo delle donne”, che andrà al Festival di Firenze. Dentro ci sono le vallette italiane semispogliate, le veline, l’autosfruttamento consapevole del proprio fisico e tante domande. Perché, per esempio, le ragazze, per apparire emancipate, si devono porre come oggetto del desiderio? Hanno intervistato una studentessa francese, venuta in Italia con l’Erasmus per raccogliere materiale per la sua tesi di laurea. L’argomento era il rapporto tra tv italiana e corpo femminile. Le conclusioni a cui questa giovane donna è giunta nel suo lavoro sono che il nostro paese è imbarazzante. Uso strumentale della bellezza, gambe scoperte e scollature a tutte le ore, questo è il menù. Accade solo nella televisione italiana e non è una novità. Già nel 2007 fece molto scalpore l’articolo di un giornalista inglese del Financial Times che metteva in luce lo sfruttamento del corpo femminile ad opera della televisione italiana. E’ come se le donne vere stessero scomparendo dalla tv, sostituite da una rappresentazione grottesca, volgare, umiliante. La donna, nella rappresentazione televisiva, difficilmente mantiene una sua soggettività. In primo piano c’è il suo corpo. Protagonista ammiccante negli stacchetti televisivi oppure oggetto di violenze, negli episodi di cronaca nera. Viviamo in una “democrazia mediaticamente orientata” da troppi anni per far finta di non vedere il filo nero che lega rappresentazione televisiva e realtà. Il cielo dell’Italia del 2009 è sempre più plumbeo. La crisi economica incalza, togliendo prospettive e sicurezza, e l’opposizione è debole, divisa e confusa. Collassa il sistema democratico e avanzano le ronde, con il favore di un popolo che sembra essere sempre più incline al linciaggio, in marcia attraverso le periferie italiane a caccia dei nemici invasori, rumeni, albanesi, extracomunitari. Come ci è finito, quindi, il corpo delle donna, al centro di questa guerra tra padri e mariti italiani  e barbari stupratori, che siano immigrati rumeni e di altre nazionalità? Il reato di violenza sessuale è ritornato ad essere, mediaticamente, un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume. Nonostante sia nella realtà giuridica, da molti anni e dopo lunghe battaglie, un delitto contro la persona. La rappresentazione televisiva, invece, è stata così forte da far sparire la donna come persona: offesa, certo, ma consapevole di se stessa e titolare di diritti specifici.  La donna vittima di violenza interessa solo perché “portatrice” di un corpo capace di scatenare la guerra. Il corpo femminile viene investito di simboli che ne fanno luogo di contesa e di controllo. Così come accade in guerra. Sparisce la cittadina, con la sua soggettività e l’inviolabilità dei suoi diritti, e appare la preda. Come in ogni guerra, la stampa enfatizza le emozioni: piovono notizie di stupri. Stranieri inferociti si avventano sulle donne negli spazi pubblici e italiani ebbri, spesso giovani e in branco, ubriacano e violentano le proprie compagne. Ma questi sembrano suscitare poco clamore così come i mariti e i conviventi che stuprano e picchiano le “loro” donne. O come i giovani maschi che danno fuoco agli immigrati, per noia. Anche gli ultimi interventi legislativi, approvati sull’onda dell’emotività legata ad alcuni fatti di cronaca, hanno come elemento fondante unicamente la questione della pena da comminare al criminale. Non è un caso che si parli di decreto “anti stupro” per indicare un provvedimento legislativo che introduce le ronde come unica “medicina preventiva” alle violenze contro le donne. E’ significativo anche perché ci da un idea della concezione di violenza che guida l’immaginario collettivo, quella commessa da stranieri nei vicoli bui delle nostre città, ormai assediate dai barbari venuti a fuori. Questa rappresentazione è così efficace che anche il legislatore, che dovrebbe tenere presente la realtà per intervenire con efficacia, l’ha fatta sua, acriticamente, in pieno. Il resto, la violenza commessa all’interno delle sicure mura domestiche, che non arriva neppure di fronte ad un giudice perché difficilmente viene denunciata dalla donna che la subisce, non è oggetto di alcuna rappresentazione mediatica e, pertanto, non esiste. Quindi, paradossalmente, non acquisisce dignità tale da farne oggetto di dibattito politico, figuriamoci di un serio intervento legislativo. Questa condizione di “non esistenza” accomuna le donne “reali” che stanno dall’altra parte della rappresentazione. Giovani donne adolescenti che guardano programmi televisivi abitati da donne non reali e “mediaticamente” modificate, prendendole per vere, ragazzine la cui prima causa di morte è l’anoressia e la bulimia, per dire. Donne che lavorano e che vengono, nonostante maggiori competenze e capacità, pagate inesorabilmente meno dei loro colleghi uomini. Donne che subiscono violenza e ancora oggi, nella maggioranza dei casi, non denunciano. Ma se non esistiamo, allora, come ci organizziamo? Pure il nostro Ministro delle Pari Opportunità è finto. Come facciamo a ridiventare reali? Allora, quest’anno di quanto siamo tornate indietro?

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