Il presunto declino degli USA nel governo dell’equilibrio globale del potere

16 Maggio 2017
Gianfranco Sabattini

E’ molto diffusa la generale credenza che gli Stati Uniti d’America siano incamminati verso un inesorabile declino; è evidente il destino che ciò potrebbe riservare a gran parte dei Paesi retti da strutture istituzionali democratiche, solo che si pensi, ad esempio “a come cambierebbe radicalmente la storia europea futura se la pax americana sotto il cui segno l’Europa, dopo il 1945, ha conosciuto pace, benessere e stabilità democratica, venisse meno”. Così si esprime Angelo Panebianco nella Prefazione al libro di recente comparso nelle librerie italiane di Joseph Nye Jr., “Fine del secolo americano?”, definito dal prefatore “libro fuori dal coro”. In esso l’autore, noto politologo americano della John F. Kennedy School of Government di Harvard, sostiene “una tesi controcorrente, che solo pochi fra gli studiosi e gli osservatori della politica internazionale contemporanea sono disposti a sottoscrivere”.

Il libro di Nye sostiene che un passaggio del ruolo degli Stati Uniti nel mondo attuale ad altra potenza non è un’eventualità auspicabile; ciò perché non può sfuggire a nessuno – a parere di Panebianco – che se i declinisti avessero ragione, allora il mondo che ci si prospetta, guardato dal punto di vista di noi occidentali, ci appare un mondo in cui “sarebbe sempre più spiacevole vivere…Al declino degli Stati Uniti si accompagnerebbe un declino (economico, politico e infine anche militare) del mondo occidentale, Europa compresa, nel suo insieme”. Nye smentisce le previsioni decliniste del suo Paese, formulando una risposta complessiva alla domanda del titolo del suo libro e facendo innanzitutto chiarezza su ciò che si deve intendere per “secolo americano”.

Il suo inizio, afferma il politologo di Harvard, a parere di alcuni analisti coinciderebbe con la fine del XIX secolo, quando gli Stati Uniti sono diventati “la più grande potenza industriale del mondo”; o con i primi del “Novecento, quando l’economia statunitense era quasi un quarto di quella mondiale, dato rimasto pressoché immutato fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale”. Gli analisti che definiscono il secolo americano in termini della sola potenza economica, lo fanno coincidere in sostanza con il XX secolo, prevedendone la conclusione, dopo aver raggiunto il suo apice negli anni Cinquanta, “all’incirca entro i prossimi dieci anni”, nel momento in cui essi prevedono il sorpasso della Cina a danno degli Stati Uniti.

Non necessariamente però, a parere di Nye, il potere economico “misura” la capacità di un Paese di influenzare gli altri, sino ad indurli a comportarsi secondo le proprie aspettative; ciò perché una superpotenza economica ha a disposizione tre modi per esercitare la propria influenza sugli altri: può farlo con la coercizione, con il trasferimento di risorse, oppure con l’attrazione e la persuasione. La coercizione e i trasferimenti – afferma Nye – sono forme di “hard power” (potere duro), mentre l’attrazione e la persuasione sono forme di “soft power” (potere suadente): “ciascuna di queste dimensioni del potere è importante”, ma è fuorviante definire il secolo americano sulla base della sola forza economica; considerando le “tre dimensioni del potere (economica, militare, soft)” congiuntamente, diventa possibile, pur continuando a far coincidere il secolo americano con il XX, definirlo, non in funzione del solo “hard power”, ma in funzione del come gli Stati Uniti hanno usato il loro “soft power” “per influenzare l’equilibrio globale del potere”.

Nel XIX secolo – afferma Nye – sebbene gli Stati Uniti fossero dotati di una considerevole potenza commerciale, essi hanno però svolto un ruolo marginale a livello globale, per via del prevalente isolazionismo, che la loro cultura politica nutriva soprattutto nei confronto dei Paesi europei. Il punto di svolta dell’ascesa globale degli USA è stato il loro ingresso nella Prima guerra mondiale, e sebbene al termine delle ostilità essi siano tornati alla “normalità” della posizione isolazionista, il loro ruolo negli anni Trenta del Novecento è diventato “un fattore determinante per l’equilibrio del potere globale”; ruolo che gli USA hanno definitivamente consolidato, da un lato, con la partecipazione alla Seconda guerra mondiale, quindi con l’apporto decisivo, tramite il Piano Marshall, alla ricostruzione dell’economia di gran parte dei Paesi che erano stati devastati dagli eventi bellici; dall’altro lato, con la realizzazione di una stabile area valutaria, fondata sul dollaro, grazie alla quale è stata resa possibile la ripresa generale del commercio internazionale.

Dal 1945 al 1991, l’”equilibrio globale del potere” è stato gestito in condizione di duopolio dalle due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, che maggiormente avevano contribuito a sconfiggere il nazismo. Secondo alcuni storici, però, il periodo successivo al 1945 è stato caratterizzato dalla creazione di “un ordine gerarchico a guida americana con caratteristiche liberali”, nel quale gli Stati Uniti hanno fornito “beni pubblici globali” (sicurezza, protezione, mercati liberi e aperti), che hanno reso gli altri Stati propensi ad accettare l’egemonia americana; un ordine, cioè, che in linea di principio, a parere di Nye, potrebbe sopravvivere anche nell’ipotesi di un declino degli Stati Uniti. Sull’ipotesi di coloro che prevedono un prossimo declino del secolo americano, perché gli USA sarebbero superati economicamente da altre potenze, il politologo di Harvard si chiede se esistono realmente “candidati plausibili affinché ciò possa accadere”.

Per rispondere all’interrogativo, Nye prende in considerazione alcune aree o potenze economico-politiche che, in linea di principio, potrebbero sostituire gli USA nella gestione dell’equilibrio del potere globale, quali principalmente l’Europa, la Russia e la Cina. Escludendo che il potere relativo degli USA possa diminuire per cause interne, egli individua i motivi di debolezza dei più probabili sostituti, nelle difficoltà economiche e politiche, interne ed internazionali, che li caratterizzano, impedendo loro di combinare l’”hard power” e il “soft power” dei quali dispongono nella strategia necessaria per una sostituzione degli USA al “top” della gerarchia globale.

Solo l’Europa, considerata come entità unitaria, potrebbe essere, a parere di Nye, l’unica area in grado di “fare ombra” alla primazia degli USA; essa è la più grande economia del mondo, con un PIL, sia pure di poco, maggiore di quello degli Stati Uniti, mentre la sua popolazione è di gran lunga superiore a quella americana; sebbene il reddito pro-capite americano sia più alto di quello europeo, “in termini di capitale umano, di tecnologia e di esportazioni – afferma Nye – l’Europa compete quasi alla pari con gli Stati Uniti”. Per converso, in termini di risorse militari, il bilancio dell’Europa per la difesa è meno della metà di quello americano; inoltre, anche se nel campo dello “soft power” la cultura europea ha esercitato per molto tempo una vasta capacità di attrazione nei confronti del resto del mondo, le sue contraddizioni attuali, ad esempio, sul problema dei migranti e sulle crisi mediorientali, ne hanno determinato la dissoluzione.

La realizzabilità dell’ipotesi che il Vecchio Continente sostituisca gli USA nel governo dell’”equilibrio globale del potere” dipende in ultima istanza – a parere di Nye – dall’esito del suo processo di unificazione: se l’Europa saprà raggiungere “un’unità politica e un’identità socioculturale tali che le permettano di agire come un attore unico nello scacchiere internazionale, o se, al contrario rimarrà un mero gruppo di paesi con diversi nazionalismi, diverse culture politiche e diverse politiche estere”. Allo stato attuale, l’Europa trova insormontabili difficoltà nel raggiungere un adeguato livello di unità, per cui è poco verosimile che nel breve-medio termine i Paesi membri dell’Unione trovino l’unità d’intenti necessaria a dare vita ad “una singola unità statuale”, sino ad escludere per un tempo sufficientemente lungo che l’Europa possa riuscire a sorpassare gli Stati Uniti.

Lo stesso può dirsi, per ragioni diverse, nei confronti di Russia e Cina. Dopo la disgregazione dell’URSS, la Russia, pur dotata di un vasto arsenale militare, ha visto ridursi del 50% la popolazione e l’economia complessiva delle ex repubbliche socialiste. In campo economico, il PIL e il reddito pro-capite russi sono, rispettivamente, un settimo e un terso di quelli degli Stati Uniti e la sua economia attuale “è fortemente dipendente dagli introiti derivanti dalle risorse energetiche”. Petrolio e gas rappresentano i due terzi delle esportazioni russe, la metà delle entrate statali e il 20% del PIL. Riguardo al “soft power”, quello dell’ideologia comunista, abbondantemente compromesso dalla pratica di governo stalinista, è stato ulteriormente minato dall’attuale classe politica russa, per via delle intimidazioni fatte valere nei confronti di molte repubbliche ex-sovietiche, oggi Stati indipendenti, e di altri Paesi vicini. Tenuto conto di tutti questi aspetti, molti sono – afferma Nye – gli scenari possibili; ma oggi la Russia sembra essere in forte difficoltà, con un’economia monoculturale, istituzioni corrotte e problemi demografici interni di difficile soluzione, per cui è plausibile prevedere che anch’essa, al pari dell’Europa, non possa riuscire nel breve-medio periodo a sorpassare gli Stati Uniti.

Per molti analisti, la potenza con maggiori probabilità di poter sostituire gli USA a livello globale è la Cina. Dal punto di vista economico, dopo le riforme di mercato degli anni Ottanta del secolo scorso, apportate da Deng Xiaoping, il grande Paese asiatico ha indubbiamente operato un notevole “balzo in avanti” sulla via del crescita, con tassi annuali che, per molti anni, hanno superato il 10%; tuttavia – a parere di Nye – la Cina ha ancora molta strada da percorrere, per poter realmente aspirare a sostituire gli USA, ponendo così fine al secolo americano. La tecnologia è un chiaro esempio della differenza che ancora esiste tra l’America e la Cina; quest’ultima ha compiuto enormi progressi in campo tecnologico, però ha sempre fatto affidamento, più sull’imitazione delle tecnologie straniere, che sull’innovazione dovuta alla ricerca endogena.

Dal punto di vista militare, la Cina è ancora molto lontana dal potersi paragonare agli USA; rispetto alla spesa militare mondiale, la Cina si attesta all’11% contro il 39% degli americani; inoltre, la Cina non ha sviluppato sinora “una significativa capacità di proiezione della sua forza su scale globale”, sebbene abbia iniziato a creare una flotta capace di operare su vasta scala. Infine, dal punto di vista politico, la Cina non ha ancora saputo risolvere il problema della partecipazione democratica della sua società civile alle scelte pubbliche. Le debolezze economiche, militari e politiche impediscono alla Cina di sviluppare un adeguato “soft power”, sia per il venir meno, sul piano ideologico, dell’attrazione esercitata nei confronti del resto del mondo dalla sua particolare interpretazione del marxismo leninismo, sia per il prevalere di una cultura basata prevalentemente sul nazionalismo etnico.

Esiste, tuttavia, secondo Nye, l’eventualità che la fine del secolo americano non dipenda dalla conquista dell’egemonia globale da parte della sola Cina o della sola Russia, ma sia originata da un’improbabile alleanza tra le due superpotenze. Nye ritiene che il verificarsi di un tale evento si scontri con molti ostacoli, dato che entrambe le superpotenze competono per estendere la loro influenza in Asia centrale; fatto, questo, che in prospettiva esclude che un’alleanza stretta tra i due Paesi in funzione antiamericana possa andare “oltre un tattico coordinamento diplomatico”.

Sebbene nel breve-medio periodo gli Stati Uniti non corrano alcun pericolo di vedersi superati nella gestione dell’”equilibrio globale del potere”, essi però non possono ignorare che il mondo moderno è caratterizzato dal verificarsi di fenomeni transnazionali (instabilità finanziaria dei mercati, disuguaglianze distributive tra i vari Paesi e tra tutti gli individui a livello globale, cambiamento climatico, inquinamento, pandemie e, da ultimo, terrorismo) che da sole le singole superpotenze, per quanto dotate di “hard power”, non sono in grado di affrontare, a causa della dimensione e complessità di tali fenomeni, divenuti causa di instabilità nell’esercizio del potere globale. L’implicazione è che, per le superpotenze (o quasi-superpotenze, come L’Unione Europea), s’impone la necessità, non tanto di competere tra loro per conquistare l’egemonia mondiale, quanto di collaborare; ciò significa che la fine del secolo americano, semmai avverrà, sarà determinata dalla convergenza dell’interesse di tutti i “competitori globali” a costruire istituzioni internazionali finalizzate ad affrontare le minacce e le sfide comuni.

Tuttavia – conclude Nye – in presenza delle nuove questioni transnazionali, se è vero che per raggiungere obiettivi comuni sarà necessaria la collaborazione di tutti, il secolo americano potrebbe continuare, “non più solo in termini di potere degli Stati Uniti sugli altri, bensì in termini di potere degli Stati Uniti con gli altri”. Il secolo americano si conserverebbe “nel senso della centralità degli Stati Uniti nel sistema di equilibrio di potere e nella produzione di beni pubblici”, assumendo però un ruolo diverso da quello svolto a partire dalla seconda metà del secolo scorso.

D’accordo; ma quale atteggiamento assumeranno gli Stati Uniti sul piano strettamente politico-istituzionale all’interno delle nuove istituzioni? Continueranno a comportarsi come “azionista di riferimento”, così come hanno fatto sinora all’interno di quelle ancora esistenti, oppure accetteranno l’idea di condividere realmente con gli altri l’esercizio del tanto agognato potere globale? A formulare risposte convenienti a queste domande da parte degli Stati Uniti potrebbe concorrere responsabilmente l’Europa, se solo i Paesi membri riuscissero a sottrarsi all’ostacolo degli egoismi nazionalistici, che sinora hanno costituito il principale impedimento sulla via dell’unificazione politica.

La presenza dell’Europa unita all’interno delle future istituzioni transnazionali sarà tanto più necessaria, se si vorrà evitare il pericolo che le decisioni siano assunte unicamente da attori non statali, quali ad esempio gli operatori dei mercati finanziari, così come vorrebbe il “soft power” della cultura tradizionale americana; oppure che le stesse decisioni siano assunte da attori unicamente statali, così come vorrebbe l’”hard power” della cultura russo-cinese. Sull’Europa del futuro graverà, perciò, la responsabilità di garantire ai popoli che la compongono le loro tradizioni socialdemocratiche, onde evitare l’esperienza, per loro assai poco congeniale, del “turbocapitalismo americano”, da un lato, e del “demosocialismo russo-cinese” con elementi di mercato, dall’altro.

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