La “grande bellezza” dei luoghi non è sufficiente a promuoverne la crescita

16 Aprile 2018
[Gianfranco Sabattini]

La crisi ha colpito tutti i Paesi europei, ma le conseguenze sono state diverse a seconda delle condizioni proprie di ciascun Paese e di come esso si era già ammodernato per far fronte alle sfide dell’economia internazionale in continua evoluzione. L’Italia si è trovata impreparata, nel senso che, come afferma Giuseppe Viesti, in “Un Paese plurale, difficile e bellissimo” (Il Mulino, n, 6/2018), nonostante la “varietà dei suoi luoghi e delle sue città”, è stato uno dei Paesi che maggiormente ha subito gli esiti negativi della crisi; in Italia, infatti, non si sono verificate le trasformazioni che hanno caratterizzato molte altre economie europee; è stata più forte la tendenza “a vivere troppo nel passato, con lo sguardo forse nostalgicamente rivolto a quel che fu e non a quello che diviene o che può essere”.

In modo particolare, l’Italia ha risentito, da un lato, della crisi di alcuni suoi presunti punti di forza, espressi dal fatto che una parte importante del suo sistema produttivo era stata costruita sulla base dell’assunto che il “piccolo fosse bello”; dall’altro lato, ha manifestato l’incapacità, proprio per via della debole struttura delle base produttiva, di reagire in tempi brevi alle sfide delle globalizzazione.

Tuttavia, non sono mancate, come conseguenza della crisi, alcune dinamiche che hanno riguardato le “grandi aree territoriali”; nelle regioni del Nord – afferma Viesti – si sono verificati “forti processi di gerarchizzazione a vantaggio dei grandi centri urbani, mentre gran parte delle regioni del Centro sono state caratterizzate da “uno scivolamento verso il basso”, che ha colpito in modo particolare la capitale del Paese, sino a configurarne un sostanziale e forse irreversibile declino. Del tutto negative sono state le dinamiche cha hanno caratterizzato le regioni meridionali. Nel complesso, secondo Viesti, il fenomeno che, tra i tanti, ha connotato la realtà di molti luoghi dell’Italia è stata la dinamica demografica, che ha influenzato, nel bene e nel male, le loro prospettive future. Tra i Paesi OCSE, l’Italia è quello che, dal 2000, ha accolto i più alti flussi migratori, sia a livelli assoluti che in termini percentuali sulla popolazione totale; flussi che si prevede siano destinati a durare e a creare tensioni sociali, che la politica si sta dimostrando incapace di riuscire a governare.

La presenza di un eccessivo numero di immigrati può essere fonte anche di problemi economici che potrebbero incidere sul futuro andamento dell’economia nazionale. Sinora, con un eccesso di retorica e di un malinteso umanitarismo, è prevalsa la tendenza a giustificare l’accoglimento dell’immigrazione come antidoto alla bassa natalità che sta affliggendo il Paese, agli squilibri nella distribuzione della sua popolazione per classi di età e all’invecchiamento, trascurando il fatto che la mancanza di una politica condivisa di lungo periodo circa le modalità di accoglimento degli immigrati, oltre a creare conflitti sociali di difficile controllo, può anche originare effetti negativi sul piano economico.

Per molti comparti produttivi – afferma Viesti – la disponibilità di “nuova, ampia, forza lavoro a costi contenuti” potrebbe incentivare la piccola e media imprenditorialità dell’economia italiana ad adottare “combinazioni produttive” fondate sul basso costo della forza lavoro, piuttosto che “sull’innovazione, specie alla luce del livello estremamente basso degli investimenti privati”; se ciò accadesse, le piccole e medie imprese nazionali ereditate dal passato potrebbero anche riuscire a conservarsi sul mercato nel breve periodo, ma la loro capacita di conservazione ed di crescita futura sarebbe sicuramente compromessa.

In Italia, sebbene a seguito della crisi non si sia ancora formata una “fascia delle ruggine”, così com’è accaduto in alcuni Paesi di vecchia industrializzazione, il rilancio dell’economia nazionale richiede la riorganizzazione ed il consolidamento di “imprese e distretti leader centrati sulla presenza di imprese medie e medio-grandi”, che facciano dell’innovazione il “motore” della loro ulteriore crescita, al fine di reggere alla concorrenza sui mercati globali, e del loro ulteriore consolidamento, come pre-condizione per la realizzazione di sistemi produttivi territoriali policentrici e diversificati. Cruciale, da quest’ultimo punto di vista, risulterà la capacità dei singoli luoghi di offrire efficaci servizi alle imprese; capacità che i luoghi potranno acquisire solo se si riuscirà a porre rimedio alla carente politica economica nazionale con cui, sinora, si è mancato di migliorare l’attrattività dei luoghi di possibili flussi di investimenti esterni. A tal fine, sarà necessario adottare, a livello nazionale, una dimensione locale per la futura politica finalizzata alla promozione delle crescita del Paese.

Il ruolo della dimensione locale nei processi di sviluppo ha subito notevoli mutamenti, legati al cambiamento occorso nel rapporto tra i territori e le modalità di produzione; per inquadrare il ruolo dei territori nei processi di sviluppo occorrerà individuarne le caratteristiche, gli elementi e i requisiti costitutivi, le strategie e come queste ultime possano essere tradotte in politiche attive da parte dei vari attori istituzionali e non. Ciò significa che, per promuovere la crescita a livello territoriale, occorrerà partire dal presupposto che essa non è più solo quantitativa, ma anche qualitativa, coniugata ad una distribuzione equitativa della ricchezza e del benessere della comunità territoriale.

Il territorio, quindi, sarà tanto più competitivo, anche a livello globale, quanto più sarà capace di individuare e perseguire una propria strategia di sviluppo, che massimizzi le specificità locali nel loro complesso. Ne deriva che, data la capacità degli attori locali di individuare gli obiettivi da perseguire e le strategie da assumere, lo sviluppo dei singoli luoghi non dovrà essere settoriale, ma legato a politiche multidimensionali e intersettoriali, in cui il territorio sia l’elemento centrale di supporto.

Nella prospettiva dello sviluppo locale, il livello statale non dovrà più essere l’unico o il principale livello di intervento, ma andranno individuati altri livelli: verso il basso (in reti di imprese che superino i livelli locali); verso l’alto (in istituzioni e organismi a livello sopranazionale come, ad esempio, la UE), tra centro e periferia (in forme di cooperazione, sia verticale che orizzontale, tra enti pubblici); tra pubblico e privato (in varie e possibili forme di partenariato).

Con lo sviluppo locale, il territorio dovrà diventare protagonista, capace di attrarre imprese e di contribuire al loro sviluppo; in questo modo, lo sviluppo locale potrà trasformarsi in vera alternativa strategica al centralismo decisionale sinora prevalso, con la diminuzione degli interventi di programmazione centralizzata e il continuo cambiamento dei contenuti e delle modalità di intervento; ciò contribuirà a rendere prevalenti gli obiettivi di sostenibilità e di coesione rispetto a quelli di riequilibrio e a far sì che gli interventi risultino sempre indiretti, di indirizzo e di incentivo per la promozione di forme di governance del territorio.

Per promuovere un reale sviluppo locale, occorrerà tuttavia evitare i facili entusiasmi che possono essere suscitati dalle prospettive di crescita offerte da un’eccessiva specializzazione produttiva. In quasi tutti il territorio nazionale – afferma Viesti – “è in corso uno sforzo per potenziare le attività turistico-culturali”, favorito dalla disponibilità di molti fattori attrattivi e dal fatto che “alla lunga tradizione delle grandi città d’arte e cultura, delle mete montane e balneari” si aggiunge oggi un’”offerta sempre più ampia, che tocca quasi tutti i luoghi italiani”. Lo sviluppo delle attività turistico-culturali, specie nei luoghi delle regioni meridionali, può rappresentare un’opportunità che non potrà essere trascurata, soprattutto per la possibilità che le presenze turistiche possano fungere da stimolo per il consolidamento e lo sviluppo delle attività manifatturiere che ”più con quei luoghi si identificano, con un aumento della produzione e del reddito.

Tuttavia, la prospettiva della crescita dei territori, fondata sullo sviluppo delle attività turistico-culturali non manca – avverte Viesti – del pericolo che la gestione delle presenze temporanee trasformi i singoli luoghi in prevalenti “strutture di servizi e di accoglienza per i turisti a danno dei residenti, e occupazioni a bassa qualifica e salario”. Al fine di evitare questo pericolo, sarà necessario che lo sviluppo locale fondato sulla crescita del turismo sia sempre accompagnato da “una buona diversificazione dell’economia, che associ alla filiera turistica altri punti di forza”, al fine di favorire che lo sviluppo locale diventi uno “sviluppo polifonico”. Ciò significa che le opportunità offerte dal turismo non potranno offrire una sicura prospettiva di crescita, se mancherà una diversificazione produttiva e se le stesse attività turistiche mancheranno d’essere continuamente rivitalizzante.

La complessità dello sviluppo locale fondato sulle attività turistico-culturali mette, ancora una volta, in evidenza (male antico dell’Italia) la frattura tra “il Nord e larga parte del Centro, da un lato, e il Sud e le Isole, dall’altro”; ciò perché il Centro-Nord, “per conformazione geografica, livello di sviluppo e esistenza di reti e servizi di collegamento, vede svilupparsi flussi sempre più intensi, al suo interno e con l’estero. Il Mezzogiorno, al contrario, ‘non esiste’. Per conformazione geografica, minore livello di sviluppo e debolezza di reti e servizi di collegamento non crea flussi al suo interno; se non su scala locale dove la densità della popolazione è maggiore”.

Anche riguardo a questa forma di dualismo, la politica nazionale è stata assai distratta e assente, non solo per scarsità di risorse, ma anche e soprattutto per “scelta strategica” e per “distrazione ideologica”; ciò ha causato il prevalere di visioni d’intervento che – secondo Viesti – hanno solo richiamato “uno Stato minimo”, al quale è risultata superflua un’azione nazionale, perché le dinamiche dei luoghi dovevano essere solo il risultato di meccanismi di competizione tra loro. A causa dell’assenza di una lungimirante politica nazionale, nei luoghi dove l’azione pubblica risultava maggiormente necessaria, vi è stato, al contrario, un completo disinteresse per l’azione propulsiva che, nei confronti dei luoghi maggiormente afflitti da situazioni di arretratezza, potesse essere svolta da un’attività di “governo multilivello, in grado di valorizzare la varietà territoriale con un accorto decentramento dei poteri e responsabilità, in un quadro di forte unità nazionale”; ciò, allo scopo di garantire pari diritti e opportunità a tutti gli italiani.

In sostanza la politica nazionale, nei confronti dei luoghi arretrati, ha mancato di realizzare le condizioni necessarie per attivare il cosiddetto “dinamismo dal basso”, evitando di considerare che nessun protagonista esterno è in grado di promuovere la crescita delle comunità territoriali, senza che tutti i loro componenti siano i veri protagonisti dei processi di cambiamento. Ovviamente, il futuro dell’Italia non può essere solo la “somma algebrica” di quanto potrà accadere nei singoli luoghi; tuttavia, i cambiamenti delle “periferie” possono esprimere un potenziale sviluppo futuro per il Paese, se la crescita dei suoi territori, oltre che essere ricondotta ad unum da una coerente politica economica nazionale, è sorretta anche da dinamiche istituzionali idonee a rendere possibile la crescita.

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