La lotta di classe dopo la lotta di classe

1 Gennaio 2018
[Marco Revelli]

La lotta di classe dopo la lotta di classe. Con questa formula, nel 2012, Luciano Gallino ci invitava a rileggere i decenni successivi agli anni Settanta per capire forme e cause di una tragedia sociale annunciata. «Non è affatto venuta meno la lotta di classe» – ci diceva uno dei pochi sociologi contemporanei rimasto fedele alla funzione della propria disciplina come coscienza critica della società. Semmai ha cambiato verso, non più dal basso verso l’alto ma viceversa, dal momento in cui il mondo del privilegio aveva dichiarato guerra al mondo del lavoro per riprendersi il terreno perduto, e molto di più. Per ristabilire brutalmente le distanze sociali. E aveva stravinto.

Ora i numeri gli danno platealmente ragione. Il più sistematico e approfondito studio sulle ineguaglianze sociali su scala globale, sintetizzato nel World Inequality Report 1918 (di cui il manifesto si è già occupato venerdì scorso) mostra con chiarezza le dimensioni di quella vittoria e di quella sconfitta. Gli oltre 100 ricercatori sparsi nei cinque continenti (coordinati da un gruppo di cinque autorità scientifiche tra cui Thomas Piketty) che costituiscono il World Inequality Lab e ne alimentano il gigantesco database, ci dicono che nell’ultimo quarantennio l’economia-mondo è cresciuta – pur tra crisi e scossoni – anche a tassi elevati, ma la nuova ricchezza prodotta non si è ripartita equamente, anzi: è stata ampiamente monopolizzata dalla sempre più esigua minoranza che sta in alto.

Quel sistema economico globale che Gallino aveva definito «finanz-capitalismo», per segnalare la rottura con il capitalismo industriale novecentesco, ha funzionato come una gigantesca macchina che ha centralizzato e verticalizzato la ricchezza, premiando chi già più aveva, rendendo i ricchi sempre più ricchi. E riservando alla massa sterminata di chi sta sotto le briciole, secondo una logica che con gli statuti della modernità progressiva ha sempre meno a che fare, richiamando piuttosto scenari di tipo feudale, o l’esempio biblico del ricco epulone.

Le cifre sono impressionanti: nel 2016 il 10% più ricco (il primo «decile», in linguaggio tecnico) si è arricchito a un ritmo superiore al doppio rispetto al 50% più povero. Con percentuali diverse, certo, tra aree geo-economiche: in Medio Oriente si sono accaparrati il 61% del reddito disponibile, nell’Africa sub-sahariana il 55% (poi ci si chiede come mai di lì i poveri debbano fuggire), negli Stati uniti e in Canada il 47%, in Europa «solo» il 37%. Ma con un tratto di tendenza omogeneo. Non solo: nemmeno quel 10% che sta al top mostra una dinamica egualitaria, per così dire, perché l’1% che sta sul limite superiore di quel decile fa registrare incrementi della propria ricchezza incomparabili con l’altro 9%. E lo 0,1% che costituisce il livello superiore di quell’1% a sua volta guarda infinitamente dall’alto gli altri che svettano al di sotto.

Di contro, spicca nel Rapporto il destino della classe media globale (concentrata soprattutto tra Stati uniti ed Europa, e comprendente anche buona parte della ex classe operaia beneficiata dalle politiche keynesiane del Novecento «social-democratico»), la vera sacrificata di questo modello di economia. Sono le famiglie che stavano in fasce di reddito intermedie (diciamo tra i 35 e i 90.000 dollari annui) e che sono state letteralmente «schiacciate» (squeezed, dicono gli autori, che vuol dire anche «spremute», «strizzate»). Del fenomeno c’è anche una rappresentazione grafica, piuttosto impressionante: si chiama The elephant curve perché la linea del grafico disegna il profilo di un elefante, in crescita nella parte posteriore, quella relativa ai redditi più bassi che, soprattutto nei paesi emergenti si sono avvantaggiati un po’ con la globalizzazione nel trentennio a cavallo del passaggio di secolo avendo comunque posizioni di partenza molto basse (hanno intercettato le briciole, appunto), poi in brusca caduta nelle fasce di reddito centrali (le «classi medie»), fino appunto al nono decile, e infine – è appunto la proboscide – in esponenziale crescita, che si fa addirittura verticale in corrispondenza dell’ultima frazione di punto (il percentile corrispondente al 99,999%, cioè i più ricchi tra i ricchi).

Chi si interroga sulle ragioni del diffondersi dei cosiddetti «populismi» tra quelle stesse classi medie che a lungo erano state il fattore di stabilizzazione nelle democrazie occidentali, dovrebbe studiarsi con attenzione questo elementare disegno. Così come dovrebbe meditare a fondo sulle proiezioni offerte dal Rapporto in cui si dice che nel prossimo trentennio la ricchezza dell’1% più ricco (e soprattutto quella dello 0,1% e più ancora quella dello 0,01%) crescerebbe ulteriormente fino a raddoppiare in valore percentuale (sfiorerebbe il 40% della ricchezza globale) mentre quella della middle global class continuerebbe a diminuire lungo un piano inclinato che – testualmente – potrebbe portare a «various sorts of political, economic, and social catastrophes», a meno che non intervengano decisioni politiche in grado di invertire questa tendenza e cambiare questo modello.

Questa nuova, perversa forma di accumulazione che ha come involucro ideologico il dogma neo-liberista e come pratica il dominio del capitale finanziario si rivela così radicalmente tossica nei confronti non solo delle classi meno privilegiate, ma della possibilità stessa di una qualche forma di società sostenibile. Di societas nel senso etimologico del termine: insieme di individui e gruppi associati tra loro, capaci di gestire i propri legittimi conflitti in una forma non distruttiva e in un contesto condiviso.
La sua logica interna è la frantumazione sistematica, la creazione su scala allargata delle linee di frattura: di ciò che i politologi e i sociologi chiamano cleavages, dislivelli di potere, ricchezza, controllo delle risorse per superare i quali sono occorsi secoli di mediazione e di elaborazione politica e istituzionale.

La geografia sociale del nuovo mondo è spaventosamente segnata da queste sconnessioni frattali. Basta dare un’occhiata alla mappa delle “diseguaglianze territoriali” che il Commissariat général à l’égalité des territoires (Cget) ha presentato in questi giorni al governo francese. Rappresenta un quadro della Francia in cui tutti i dislivelli territoriali si sono accentuati nell’ultimo trenta-quarantennio: quello centro-periferia e in particolare città-campagna (sempre cruciale per i francesi), con le zone rurali che arretrano e i poli urbani che concentrano servizi e occasioni d’impiego. Ma anche quello all’interno dei poli urbani, in cui convivono “concentrazioni di ricchezza” e “sacche di povertà”. E quello geo-economico che vede l’area centrale del paese svuotarsi di imprese e di risorse e la fascia atlantica-occidentale riempirsi, secondo un moto centrifugo simile a quello che caratterizza il paesaggio sociale americano. La «lotta di classe dopo la lotta di classe» è anche questo: un caleidoscopio di conflitti multiformi e complessi, in attesa di una cultura politica capace di ricondurli a un asse antagonistico efficace.

[da Il Manifesto, La lotta di classe dopo la lotta di classe – La «curva dell’elefantino», ovvero la ricchezza monopolizzata dalla minoranza]

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