La medicalizzazione della vita e la filosofia

16 Novembre 2017
[Amedeo Spagnuolo]

Nel 1981 il giovane filosofo tedesco Gerd Achenbach, terminato il suo dottorato di ricerca, decise di non continuare la carriera accademica, ma di aprire uno studio da filosofo, il primo di questo genere. All’interno di esso si esercitava quella che lui chiamò la pratica filosofica. Molti si chiesero e si chiedono ancora oggi per quale motivo con il pullulare di studi psicologici e psichiatrici si dovrebbe sentire anche l’esigenza di studi filosofici.

In buona sostanza questa domanda nasce da un equivoco di fondo, in generale la psicologia e la psichiatria, con metodi diversi è ovvio, intervengono sul disagio dell’uomo considerandolo come una patologia e, in effetti, in molti casi di questo si tratta quando ci troviamo di fronte, ad esempio, a forme di depressione grave che possono essere trattate solo con il supporto farmacologico che, bisogna dirlo, riesce molto spesso a salvare la vita a tante persone che altrimenti rischierebbero di concludere il loro percorso esistenziale attraverso forme estreme come il suicidio.

La pratica filosofica invece interviene in una dimensione diversa ovvero quella del disagio esistenziale inteso però come una tappa, un momento della vita dell’uomo che può essere superato, ad esempio, con la possibilità di fornirsi di strumenti adeguati per poter cambiare la direzione della propria vita, divenuta asfittica e poco gratificante, a favore di un’esistenza più coerente con il proprio essere.

A questo proposito la pratica filosofica potrebbe rappresentare un efficace argine al processo di medicalizzazione della nostra società favorito anche dallo strapotere dell’industria farmaceutica che, molto spesso, spinge affinchè qualsiasi forma di disagio esistenziale si trasformi in una patologia psichiatrica da trattare farmacologicamente. È bene però precisare che in questo testo non s’intende assolutamente riproporre una filosofia antipsichiatrica anche se molti spunti proveneienti da quell’esperienza culturale sono certamante condivisibili. È già stato affermato che in situazioni gravi la farmacologia può quanto meno aiutare l’individuo a gestire le fasi più problematiche del suo disagio psicologico.

Il problema si pone quando, ad esempio, si osserva questo processo di medicalizzazione applicato addirittura a bambini che mostrano una vivacità “intensa” che gli psichiatri americani hanno tradotto con sindrome da iperattività meglio conosciuta come ADHD che si pensa bene di trattare con il Ritalin, un’anfetamina, come accade molto frequentemente nelle scuole americane nelle quali circa quattro milioni di bambini vengono “impasticcati” con gravi rischi per gli effetti collaterali che questi farmaci possono provocare sulla loro salute. La pratica filosofica s’inserisce proprio in questo contesto ovvero in tutte quelle situazioni in cui l’uso dei farmaci oltre che rivelarsi inutile può essere anche molto dannoso. Ci si riferisce a tutte quelle forme di disagio esistenziale “normali” in tutte le fasi della vita dell’uomo giacchè appartenenti alla sua condizione di individuo razionale e cosciente della bellezza, ma anche della tragicità che caratterizza la vita umana.

Inoltrandosi più nello specifico, la consulenza filosofica inaugurata da Achenbach negli anni ’80, è strutturata attraverso un dialogo libero tra il filosofo e l’”ospite”, la parola paziente è assolutamante vietata. L’ospite consulta il filosofo in quanto pressato da tutte quelle domande che rendono la vita, spesso, molto problematica, come ad esempio: che senso ha il dolore? Come rapportarsi alla morte? Che senso ha il lavoro? Cosa significa amare? Quale senso dare a questa esistenza? Ecc.

Queste domande, però, non vengono discusse nella loro forma generale, solitamente l’ospite pone al filosofo questioni molto concrete del tipo: come posso sopportare questa malattia? E non che senso ha il dolore. A questo punto interviene la competenza del consulente filosofico che gestirà il colloquio facendo oscillare la questione tra la teoria generale e il caso specifico tentando in questo modo, grazie al supporto dell’enorme contributo offerto dai grandi filosofi rispetto a queste tematiche, d’illuminare l’ospite e di offrirgli la possibilità di rivedere sotto una prospettiva diversa le problematiche che lo assillano. Così, per esempio, attraverso Aristotele si possono aprire scenari nuovi per un ospite deluso dall’amicizia; Kierkegaard, con le sue riflessioni sul perdono, può aiutare l’ospite assillato dalle angosce derivanti dal pessimo rapporto con i genitori defunti ecc.

Spesso a chi si occupa di consulenza filosofica si chiede: qual è la differenza con la psicoterapia? Le più importanti differenze tra la consulenza filosofica e la psicoterapia sembrano essere le seguenti: lo psicoterapeuta cerca sempre d’interpretare il disagio espresso dal paziente come un sintomo di qualcosa di più profondo per cui se il paziente si pone la domanda su quale sia il senso della sua vita, lo psicoterapeuta interpreta questa domanda come l’espressione di uno stato depressivo. Al contrario il consulente filosofico si concentrerà proprio sulla domanda giacchè egli non pensa che sia un sintomo di qualcosa d’altro, bensì l’esigenza dell’ospite di allargare, approfondire e migliorare la comprensione del problema ovvero qual è il senso della vita, in modo da renderla migliore osservandola sotto una prospettiva diversa.

Ribadendo ancora una volta l’utilità della psichiatria e dei trattamenti farmacologici nei casi in cui non è possibile agire in altro modo, sembra altrettanto utile sottolineare il fatto che la consulenza filosofica può fungere da argine a quel processo di medicalizzazione della nostra vita, favorito dalle multinazionali farmaceutiche che, soprattutto in campo psichiatrico, sta mostrando i suoi effetti più preoccupanti soprattutto nell’abuso del trattamento farmacologico rivolto ai bambini.

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