La sindrome di Mussingallone

16 Luglio 2009

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Natalino Piras

Dal libro delle sepolte. Il grido di Michele Podda sul n. 53 di questo blog, “O Ligas, mi paret chi nos tocat de lassare totu sas chistiones, e a currer a istutare fogu”,  è di shakespeariana tragicità ma soprattutto di incombente attualità. C’è una “peste nighedda”, sostiene Podda, “chi nos bochit a totus” e che è quella di 1500 operai senza fabbrica, senza lavoro, che mano mano diventeranno 15 mila e poi ancora sino alla desertificazione. “Aùni politicos e istudiaos” invoca giustamente Podda. Mi viene in mente Zanzotto, grande nostro poeta contemporaneo, che mette insieme fabbrica-non lavoro e paura, facendo entrare in questo non-luogo, in questo vuoto, nuove disperate presenze. Zanzotto fa focus sul clima padano e sull’opulenza dei parvenu, sul loro avere tradito lo spirito della fabbrica, quello che insieme al plusvalore produceva pure solidarietà tra operai. “Un voto di paura, contro gli immigrati, che è contraddittorio”, dice il poeta Zanzotto a proposito delle ultime tornate elettorali. “Un messaggio che viene da una parte della società che ha in mano la ricchezza, le fabbriche, chiede che si produca e si lavori di più. Ma rifiuta di accogliere la forza necessaria al lavoro, creando leggi restrittive. E poi piange se non c’è manodopera. Non se ne esce. Qui o si ingoia o si è ingoiati. O tutte e due le cose”. (Andrea Zanzotto, in “Quando ero uno sguattero” di Cristina Battocletti, “Il Sole 24 ore”, [Domenicale ] 14 giugno 2009, n.162, 27).

E nois? Dove ci collochiamo quelli di un mai finora storicamente attuato “Totu Paris”? Nois, per dare pregnanza all’”avèrgua e menetha” ancora nel grido di Michele Podda, chie semus: immigratos cumbintos o immigratos, in terra nostra, capatzes de s’aunire? Mi torna in mente quanto dice Francesco Mameli in suo libro sulla lingua sarda a proposito di quella perenne categoria di precari che sono gli insegnanti. Nois semus che lann ‘ ventu, come le ghiande scosse dal vento. Neppure foglie. Mi sovviene adesso un personaggio folclorico su cui ho fatto molte indagini facendolo finire pure nell’ Enciclopedia della Sardegna della “Nuova Sardegna”. Il personaggio è Mussingallone. Era un furbo che beffava gli abitanti di un paese allora sprofondato nell’isolamento, difficile da raggiungere se non da uno come lui. Diversi i mestieri e le arti attribuitegli: funzionario mandato dalla corte reale di Torino ma anche girovago, soldato, esattore delle tasse e venditore di pettini, ex galeotto e prete. A Bitudes non gli fu difficile diventare a sua volta majore e deus novu, salomone sentenziatore e taumaturgo, divinatore e mago della pioggia, consigliere di tutti, mangiatore immenso e altrettanto immenso defecatore. Ma soprattutto beffatore degli stolti. È argomento di contos de foghile e tesi di laurea, ricerche sul campo e saggi antropologico-letterari. Fa da metafora in molte storie e modi di dire e ha pure una funzione didattica. Mussingallone consiglia la gente di Bitudes su come costruire una torre di sgabelli destinata a franare, punge loro i piedi aggrovigliati, getta una brace ardente nell’orecchio di un asino caricato di terrecotte, rompe una brocca di coccio per recuperare il tappo caduto dentro. E via dicendo. Si fa regolarmente ricompensare, quasi sempre in anticipo, sia in natura che in denaro. Affamato quanto e più della gente di Bitudes è però dotato di inventiva e favella, si accorge che dal tessere fole può ricavare il necessario e il superfluo. Come sardi immigratos dovremmo superare la sindrome di Mussingallone. Provate a sostituire questo nome con altri o altro che la contingenza prima e dopo G8 ci mette davanti e il gioco è fatto. Ma non è cosa semplice vincere la sindrome di Mussingallone. È arduo. Nel libro “La Sardegna dei sortilegi”, scritto a otto mani con Franco Enna, Franco Fresi e Gianluca Medas, attualizzo il personaggio folclorico. Invento il fantasma di Petru Ramu, altrove Don Marulfo, che insegue il personaggio di Mussingallone fin dentro una torre-ciminiera, alta come quelle di Porto Torres, Ottana e Sarroch. Il Mussingallone inseguito da Petru Ramu-Don Marulfo si è trasformato: inforca occhiali con la montatura dorata e ha la faccia affilata e glabra da mere e aguzzino. Questo Mussingallone riesce a incatenare Petru Ramu e dalla cima della torre gli fa vedere l’inferno. “Il magma ribollente mangiava gli occhi a Petru Ramu che continuava a girare all’infinito nell’anello sotto il soffitto della torre. Per non precipitare dentro la gola di fuoco doveva tenersi alla ringhiera di ferro. Mussingallone gli stava dietro e lo incitava a camminare, spronandolo come una bestia”. A Petru Ramu torna in mente un film ungherese, quando il cinema magiaro era nella spina dorsale del tempo, dove la protagonista, un’operaia degli altiforni, sfinita, sfiancata, delusa, disperata, si butta dentro il magma ribollente da cui non riesce a staccare gli occhi. “Cosa costava buttarsi? Neppure il tanto di un salto. Bastava staccare la mano dalla ringhiera e lasciarsi andare”. È questa tentazione che bisogna evitare. «Mussingallone stava attento a che Petru Ramu non mollasse e nel suo linguaggio pasticciato gli diceva che sotto, dentro la gola lavoravano adesso per lui, perché il fuoco non avesse mai fine, altre schiere di disperati, consapevoli della schiavitù ma impossibilitati a liberarsene. “Los extracomunitarios”, diceva Mussingallone, “al posto dei paesani sciocchi. Et ego los nudrisco quantos vobiscum respingete. Quib da migo hanno impiego e salario fisso. Et poi, a turno facto, manducano et riposano. Adesso io legare te ad ringhiera e tu guardiscare sotto bene bene”» Una realtà immaginaria che più reale non si può. Come l’avvertenza di Andrea Zanzotto. Nella finzione, Mussingallone vince su Petru Ramu. Abolisce la sua speranza di un tempo migliore e più giusto. Ma è ancora da questa sconfitta che bisogna ripartire. Non si guarisce mai dalla sindrome di Mussingallone. Ma imparare a riconoscerlo è già un buon segno. È un muoversi nell’intento “Totu paris” dell’averguare” e aunire, nel grido di Michele Podda.

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