La violenza è reazionaria

1 Novembre 2011

Alfonso Stiglitz

Il problema della violenza attraversa da sempre la strada di chi si propone il cambiamento della società a prescindere dalla qualità dei problemi che si vogliono affrontare, quasi che essa sia la levatrice della storia (forse è una citazione ma non mi ricordo di chi), l’elemento discriminante tra chi vuole cambiare e chi si accontenta di testimoniare la propria indignazione, per usare un termine oggi alla moda. La manifestazione degli indignati tenutasi a Roma il 15 ottobre scorso si è distinta da quelle che avvenivano in contemporanea in tutto il mondo per l’alto tasso di violenza e la conseguente insignificanza della protesta, scomparsa nel nulla, a differenza delle altre. Sulle discussioni seguite e che seguiranno agli avvenimenti c’è molto da riflettere soprattutto a partire da quella espressa nell’immediato da una persona a noi cara, Valentino Parlato. Riflessione del tutto condivisibile se non fosse per una frase, sfortunata: “Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati [gli scontri con la polizia e manifestazioni di piazza]”. Frase secca, probabilmente troppo tagliata per rendere integralmente la volontà dell’autore, ma inequivocabile nel significato, ahimé. E devo dire che l’editoriale di alcuni giorni dopo, firmato da Rossana Rossanda, ha per certi versi peggiorato la comprensione ispirato più a un istinto di autodifesa che non di ragionamento, come avrebbe meritato. Indice, forse, di una certa confusione in tutti noi, evidente nell’attuale situazione del Manifesto (vedi le dimissioni della direzione: a proposito io non c’ho capito molto, per dirlo alla romana).  Non basta dire come fa Rossanda che la violenza la denunciamo da anni o che è insita nel capitalismo, bisogna affrontare il problema all’essenza stessa della violenza e fare i conti con essa, se no continuiamo a portarcela appresso come una malattia inevitabile. La violenza è reazionaria prima di tutto perché pone al centro dell’azione la soppraffazione sull’altro, chiunque sia l’altro e qualunque siano le ragioni che si oppongono, significa darsi il potere di decidere sugli altri ritenendo superiori le proprie ragioni, torti, i diritti, privilegi. È reazionaria perché pone la soluzione sul diritto del più forte a decidere del destino di tutti gli altri, a prescindere dal fatto che tutti gli altri siano maggioranza e vogliano decidere altrimenti. La manifestazione del 15 ne è la rappresentazione più chiara, una minoranza interna (è bene ribadirlo) ha deciso per la maggioranza, ritenendo le proprie ragioni superiori a quelle degli altri, considerati una massa informe, imbelle da guidare. È reazionaria nel momento in cui si decide di aggedire con il preciso intento di togliere la vita a qualcuno, fosse anche colui che per te rappresenta il nemico; l’assalto al blindato avvenuto nella manifestazione era precisamente questo, non violenza rivoluzionaria, ma decisione di farsi giudici supremi dell’altrui esistenza. La violenza del 15 era inevitabile? Si se lo si fosse voluto, no nella realtà del proporsi che spesso si ha nell’esercitare il diritto politico all’opposizione e alla protesta. I violenti del 15 non erano marziani infiltrati, ma parte, estremista se preferite, del mondo che manifestava e poco cambia se qualche provocatore o infiltrato era presente o se la polizia sia intervenuta in ritardo; quella parte c’era e questo è sufficiente a non chiudere gli occhi e paralizzare il cervello. E c’era come parte inevitabile di un modo di porci rispetto al nostro essere sinistra, al nostro modo di vole fare politica. Da molte parti è stato sollevato, già prima della manifestazione, il problema della scelta stessa di fare un’unica iniziativa concentrata, a differenza di quanto avveniva altrove. La scelta è indicativa di una mentalità, quella della forza d’urto, dell’assalto al potere, dell’esercito della protesta che avanza per dare la spallata, peraltro inefficace, ai potenti.  Per chiudere questo rapido sfogo vorrei fare un invito a riflettere sulla nostra terminologia, sulle parole che usiamo quotidianamente, accettandole come se fossero neutre e non armi di (auto)condizionamento del pensiero: assedio (al potere), assalto (ai palazzi del potere, alle caserme, alla reazione), occupazione (dell’Università), blocco (del traffico, dei treni), disgregazione (del blocco reazionario), antagonismo. Se notate sono tutti termini in parte mutuati dal bagaglio militare, e nell’insieme dotati di una negatività prova di proposta; non sono neutri ma parte integrante della costruzione politica: se pensiamo con termini militari costruiamo realtà militarizzate. La riflessione è quella della contraddizione manifesta con l’altro fenomeno con l’altro fenomeno che attraversa oggi la sinistra, ma che in parte ne prescinde: il binomio beni comuni – partecipazione, termini che travalicano l’antagonismo, il porsi contro qualcosa/qualcuno e si pongono da tutt’altra parte rispetto al precedente vocabolario, significanti di una costruzione politica del tutto diversa, non a caso spesso estranea o, meglio, indifferente alla sinistra in quanto tale. E allora ha ancora senso essere “militanti” di un esercito o può essere ora di rimettere in discussione le basi fondanti e ormai datate della sinistra, a partire da un lessico che non dovrebbe esserci più familiare.

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