La violenza e i rimedi possibili

16 Gennaio 2014
State2
Graziano Pintori

Il sanguinoso episodio avvenuto il giorno di capodanno, il figlio che uccide il padre, sembrava il vissuto di una tragedia greca. Il fatto, come qualsiasi tragedia impone, aveva suscitato tanto dolore, disorientamento e incredulità, mentre l’inchiostro dei media richiamava le variegate e numerose opinioni sui motivi che potevano aver spinto un diciannovenne a impugnare un’arma contro il “padre padrone”. Si narra l’epilogo di una vita, quella del padre, accompagnata dalla violenza come fatto distintivo di chi esercita, o vorrebbe esercitare, un potere su altri, soprattutto nei confronti dei propri famigliari. Fra le tante cose dette, in questa triste vicenda, colpisce la frase della sorella dell’ucciso: “…non giustifico mio fratello perché era malato” alludendo, evidentemente, alla violenza che ne caratterizzava il carattere. Chi pratica la violenza domestica, trattandosi di quella più diffusa, non è affetto da una malattia vera e propria, anzi, secondo gli esperti, c’è consapevolezza da parte di chi ricorre a questo mezzo che, in molte circostanze, diventa irrefrenabile. L’uso della violenza non è altro che un malo modo per imporre su altri – i famigliari- un potere che non si riesce a esercitare con la necessaria autorevolezza e condivisione. La violenza del padre padrone è paragonabile a un colpo di stato all’interno del nucleo famigliare, un golpe che agisce, nel suo piccolo, alla stregua di quelli veri: si ricorre al maltrattamento per sottomettere, dominare, piegare alla propria volontà. Il padre padrone – golpista – tenta di appropriarsi, incutendo terrore, della volontà, del pensiero, dell’intimità dei sottomessi, ossia delle persone che ama o ha amato. La violenza domestica, per usare un altro termine di paragone, è lo specchio delle “istituzioni che si basano sul principio dell’autorità, che esercitano la costrizione nei confronti di persone per renderle diverse da ciò che sono e omologarle a modelli già definiti”. Il padre padrone smarrisce la sintonia con l’affetto e l’amore dei figli e della compagna /madre, perché “ai suoi occhi appaiono persone incapaci di badare a se stesse, come tali le sottomette alla sua tutela e responsabilità rendendosi libero di esercitare, a modo suo, il potere che gli sopraggiunge”. Succede, però, nelle società dominate dai tiranni che non tutti i sudditi sono disposti a subire violenze e costrizioni umilianti, c’è sempre qualcuno che si ribella al golpista, al padre padrone, c’è chi sceglie la fuga, l’esilio, c’è chi sfida il tiranno direttamente e accetta il confronto sul campo, la sfida diretta, il conflitto. E’ chiaro, nel caso specifico, che non ci si riferisce ai sani conflitti generazionali tra genitori e figli, ma si tratta di fratture nette, di negazione dell’identità paterna da parte del figlio, perché, evidentemente, non si riconosce nel genitore, anzi ne rinnega la consanguineità. La faccenda del capodanno bittese, inoltre, non può essere circoscritta come un fatto esclusivo di quella comunità di uomini e donne, se non altro perché la violenza domestica, con i suoi effetti, è diffusa in tutti gli strati sociali e territoriali, nazionali e globali. Come pure il fatto in se non è da archiviare e rimuovere dalla coscienza collettiva, per annoverarlo tra la solita cronaca della violenza domestica. Al contrario, bisogna riflettere su tutto, in modo particolare sulla già citata frase pronunciata dalla sorella dell’ucciso: ”…non giustifico mio fratello perché era malato”. Come riferito, la violenza in ambito famigliare non può essere definita una malattia vera e propria, però potrebbe essere definita un blackout, una sconnessione con la realtà famigliare e il luogo dove si sono alimentati affetti e progetti e costruite speranze e condivisione di sacrifici, che la vita in comune inevitabilmente impone. Per di più non è necessario schierarsi a priori a favore della condanna senza appello del violento, perché la violenza, come dice lo psicologo, “non è follia e tanto meno malattia ma una scelta e come tale può essere eliminata per sempre”, ciò significa che ci sono uomini coscienti di essere attanagliati da questa debolezza, dalla quale vorrebbero liberarsi. Si tratta di una facoltà che dà loro il diritto di essere aiutati per liberarsi dalla violenza.
Come per le donne sono disponibili le reti di protezione e liberazione dalla violenza domestica, così dovrebbero sorgere centri in aiuto degli uomini che intendono liberarsi dagli impulsi violenti che li sovrastano. Un centro con questi presupposti è sorto a Modena, in cui l’ASL esercita un ruolo di primo piano assieme a delle associazioni e movimenti spontanei di uomini, i quali intendono affrontare il problema in modo alternativo agli interventi esclusivi di giustizia. Lo sportello sanità di Modena e le associazioni suddette, per combattere la violenza sulle donne, intervengono anche sulla cultura e sul modo di agire e relazionarsi degli uomini. Si può leggere sul loro sito che il “Centro Liberiamoci dalla Violenza persegue lo scopo di cambiare i comportamenti degli uomini, quelli che usano la forza senza rendersi conto che è la violenza il problema principale della famiglia”. Siccome nessun territorio è immune da questo problema, sarebbe il caso che anche in Sardegna fosse affrontato in modo diverso, in termini più civili e consoni alle possibilità di recupero degli uomini che manifestano la volontà di liberarsi dalla violenza, e con essi salvare anche la famiglia. Prestare la giusta attenzione a questa tematica sicuramente arricchirebbe la prossima campagna elettorale.

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