L’Accabadora. La ferocia della guerra, l’umanità di una donna

25 Aprile 2017
Ottavio Olita

E’ come un lungo poema epico che al posto dei versi propone immagini profonde e struggenti; oppure come una sinfonia classica che comincia lenta e insinuante e poi ti coinvolge sempre più, travolgendoti alla fine con la sua carica stilistica e contenutistica, lasciandoti inebetito dall’emozione.

Questa è la struttura di ‘L’Accabadora’, il film di Enrico Pau che, senza incertezze o tentennamenti, raffronta la cieca ferocia della guerra con la grande umanità di una civiltà ancestrale che ha tanto rispetto per la vita da contemplare la possibilità di porre fine alle sofferenze senza speranza dei malati terminali.

Riflessione di grande impatto in un’epoca in cui nella nostra italietta ci si straccia le vesti per definire una legge che ci dia nuova civiltà e contemporaneamente si ignorano bellamente i tanti devastanti conflitti in atto nel mondo.

Opera di nicchia? Forse, ma talmente gradita dal pubblico che le sale di proiezione continuano ad avere il tutto esaurito. La cosa più sorprendente è rivedere in platea anche facce diverse dalle solite, quelle che un tempo affollavano i cinema che proponevano i grandi registi del neorealismo italiano. Serietà e profondità, senza molte concessioni al futile o all’intrigante.

La Cagliari devastata dai bombardamenti contrasta nettamente con le povere campagne dove comunque le relazioni si reggono sul rispetto reciproco. La narrazione è tutta d’immagine, pochissima la parola. Il solo personaggio a cui sono affidati discorsi elaborati è l’artista, interpretata da Carolina Crescentini. E’ come se all’arte il regista affidasse la funzione di dare continuità all’uomo e al suo mondo dopo tante devastazioni.

Accanto all’arte, la forza dirompente dell’umanità. Guardando Donatella Finocchiaro che interpreta Annetta, l’accabadora, resti schiacciato contro lo schienale della poltrona. Una forze espressiva enorme – fatta di sguardi e di espressione corporea –  per raccontare il dramma di tante vite stravolte. Una delle grandi eroine del teatro classico greco, in parte ripreso da Shakespeare e anche da autori francesi del ‘600 come Racine o Corneille. E la scelta del ritmo della narrazione filmica è proprio da teatro: la lentezza per favorire la riflessione profonda.

Annetta si fa carico dell’estremo servizio da offrire alla sua comunità. Lo fa con rispetto e sofferenza, ma con la piena coscienza, insegnatale dalla madre, di essere utile a superare dolori insopportabili, del morente e dei suoi familiari.

C’è però una soglia che non riuscirà a superare e sarà quella del suo coinvolgimento affettivo. A quel punto la morte ritorna ad essere la fine di una relazione di affetti e di contrasti. Annetta non ce la fa, ma troverà comprensione e aiuto.

E’ il messaggio conclusivo che il regista affida ad un gesto che si trasforma in un estremo atto di pietà umana. Sì, perché alla fine di un film tanto intenso, privo di retorica e di  autocompiacimenti, quel che ti rimane dentro è la convinzione che la pietas è uno dei valori più importanti dell’uomo, che andrebbe esercitato sempre e comunque, al di là di convincimenti ideologici, politici, religiosi.

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