Con le migliori intenzioni. Immigrati e l’utopia dell’integrazione

16 Ottobre 2016
Manifestazione dei migranti e non solo. Foto Roberto Pili

Manifestazione dei migranti e non solo. Foto Roberto Pili

M.Tiziana Putzolu

Mi chiamo Abu e vengo dal Senegal. Ho trent’anni. Mio padre é un dipendente pubblico, in Senegal, ha quattro mogli ed io ho circa venti fratelli. Volevo cambiare vita. Ho preso l’aereo e sono venuto in Sardegna. Sì, in Sardegna. Vivo a Quartu S’Elena, con altri miei quattro cugini. Vendo merci contraffatte nei mercati di Cagliari. In spiaggia d’estate. Nei marciapiedi di fronte al porto della città. Sono regolarmente residente in Sardegna. Sono un commerciante. Per mantenere il permesso di soggiorno e poter rimanere regolarmente qua, devo pagare l’iscrizione alla Camera di Commercio e periodicamente le tasse. Spendo circa duecento euro di affitto al mese per una camera in un appartamento che condivido con gli altri quattro. Tra tasse e documenti burocratici vari mi partono quasi cinquemila euro l’anno. L’anno scorso mi sono sposato, in Senegal. Mia moglie è rimasta lì. Meglio. Una moglie sola basta. Per mantenere più mogli bisogna avere molti soldi. Un giorno tornerò in Senegal. Se diventerò molto ricco forse avrò un’altra moglie. Come si fa a dire alla prima che ne avrò una seconda? Sorride. Ci pensano gli amici. Le dicono piano piano che presto avrà una nuova cugina. Lei capisce.

Le storie si somigliano tutte. Sono semplici, genuine. Debordano di vita, di amore, di gelosie e di tante cose umane. Anche di tragedie. Possono piacerci o meno. Per capirle bisogna solo essere curiosi. Chiedere. Conoscere. In un mondo che trabocca di tragedie in ogni angolo, dalle guerre alle campagne elettorali grottesche stile Clinton-Trump non c’è bisogno di esagerare nell’animarsi di buone intenzioni. Le peggiori ci sono già. Ogni giorno. Alla portata di tutti.

Le teorie della complessità, della comprensione globale sono sfumate. Sembra che l’Umanesimo sia crollato sotto i colpi della crisi. Quella che ha svuotato la pancia ai poveri ed ha riempito ancora di più quella dei ricchi. Che ha obnubilato i cervelli di politici da avanspettacolo. Tutto è ridiventato deterministico e duale. Amico nemico. Nazionale straniero. Noi loro. I perimetri tornano di moda. Come muri, steccati, fili spinati. Che farebbero ridere se non ci fosse da piangere.

La ricerca delle Migliori Soluzioni per affrontare il problema dell’immigrazione, a noi più noto sotto i riflettori dei cosiddetti ‘sbarchi’, anima e divide, dunque. Le occasioni per dividere non mancano certo. Le Migliori Soluzioni, sia chiaro, non esistono.

Le domande sugli immigrati sono sempre le stesse, le analisi, al netto delle posizioni più estreme, pure. Quanti sono, da dove vengono, cosa fanno. I ragionamenti si moltiplicano, le soluzioni si accavallano. Spesso i problemi restano. Per tutti uno. Quello dell’integrazione. Diventato un lato a margine, un lusso, rispetto al più grande tema della prima accoglienza. Con l’annessa spesa sociale che ne deriva. Le tasche dei Comuni, primi interpreti dei bisogni, troppo povere per poter far fronte all’accoglienza, alla sistemazione, alle necessità. I soldi non bastano per tutto. Per tutti. Per i nostri e per loro.

Un sindaco di un popoloso comune della cinta urbana di Cagliari mi dice che non può spendere per tutti loro, non può accoglierli tutti, minori non accompagnati compresi. Per i suoi cittadini non ha più soldi. Quella giovane donna separata e con due figli a cui deve dare una sistemazione perché vive in povertà estrema dove la sistema? mi dice. Sa quanti sono i poveri nel mio Comune, quelli che dobbiamo assistere? a cui paghiamo la luce? Che dire. Se le tasche dell’amministrazione si scontrano con le buone intenzioni non c’è nulla da fare, pare.

Come pare non ci sia nulla da fare quando la competizione tra noi e loro arriva alle viscere degli aspiranti assegnatari di un alloggio popolare. Loro ci battono in povertà e vincono sulle assegnazioni. La miccia tra poveri e più poveri si innesca così. Pensare di costruire più alloggi popolari per tutti una utopia impensabile più del Ponte sullo Stretto di Messina. Pensare di migliorare e diversificare i criteri di assegnazione per quelli disponibili diventa un atto amministrativo sovversivo. Le nostre comunità non sono pronte, dicono spesso gli amministratori. Hanno ragione. Le nostre comunità, come quelle di altri paesi europei, si sono formate alla scuola della cultura del confine, della patria, della nazione. La copertina del libro Cuore fa ancora da sfondo ad un mondo che non c’è più.

Il nostro tempo è questo. Vivere nelle contraddizioni. Alienati a correre in avanti al punto da non vedere le soluzioni semplici. Tutti in un punto e contemporaneamente in ogni parte del mondo. Essere dentro la cultura ottocentesca degli stati nazionali e vivere interconnessi virtualmente. Avere la City e sognare la Brexit. Studiare l’inglese fin dalle elementari e sentire dai libri di scuola l’odore di una formazione scaduta, con la polvere da sparo degli austro ungarici alle porte. Mandare i nostri ragazzi a fare l’Erasmus e mettere gli immigrati nei Centri di Prima Accoglienza. Spesso praticamente dei lager.

Gli immigrati regolari, seppure lentamente, in Sardegna aumentano, mentre diminuisce la popolazione nel suo insieme. La somma degli autoctoni e degli immigrati è di segno negativo.

Sia chiaro che i migranti, diversamente da chi arriva in Sardegna con l’aereo o con i pullman organizzati da paesi europei, magari con un lavoro già in tasca come badante a Macomer o Cagliari, come muratore ad Olbia, come pastore a Nuoro, vivono come segregante lo ‘sbarco’ in Sardegna e tentano in ogni modo di proseguire il cammino verso il continente europeo. Ad ogni costo.

Gli sbarchi ed il conseguente circuito di attenzione mass mediatico, oscurano la reale portata del fenomeno migratorio che investe l’isola, quello cioè degli immigrati regolari. I numeri ci dicono che il fenomeno è sì in crescita, ma di scarsa entità rispetto ad altre regioni italiane. Soggetti sociali ‘visibili’ per via del fenomeno della concentrazione in alcune zone o aree cittadine, sono invece i migranti provenienti per la maggior parte, come è noto, dal continente africano.

Animata da Buone Intenzioni nel corso del 2015 si è affacciata l’idea proveniente dal settore della politica che dell’accoglienza dei migranti potrebbero farsi carico le cosiddette ‘zone interne’ della Sardegna che, con i migranti, vedrebbero una frenata del calo demografico che da anni investe l’isola. La Sardegna è grande, ci sono molti spazi, dicono alcuni. Un’idea generosa più che una nouvelle deportazione. Che contrasta però con gli stili e le traiettorie migratorie dei migranti, con le asimmetrie di genere, di cittadinanza, di età, di nuclei familiari degli immigrati insediati nelle diverse aree dell’isola, comprese le ‘zone interne’ nelle quali sono comunque presenti. Un’idea che accoglie l’utopia di integrazione ed affida i destini di una terra a cittadini di seconda scelta perché quelli di prima da quelle terre sono andati via. Le stesse ragioni per le quali anche quelli che arrivano loro malgrado vogliono andar via. I nazionalismi dei confini sopravvivono in maniera inversamente proporzionale alle aspirazioni dei giovani connessi con il mondo e che sono identiche a prescindere dal certificato di nascita.

L’Integrazione, in fondo, è un’utopia a buon mercato. Il vestito conformista delle Buone Intenzioni. Fare in modo che un imperfetto diventi perfetto, integro, intero, parte di un tutto. Si sono perfettamente integrati, si dice quando l’esperimento è riuscito. Sono come noi, nazionali. Italiani, tedeschi o inglesi che siamo. L’inserimento, la compenetrazione, possibilmente senza traumi per nessuno, dentro un nuovo intero che diventa perfetto, conforme. Dentro un recinto. Con l’illusione del lieto fine.

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