Libero Stato in Libera Chiesa

16 Marzo 2009

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M. M.

Circa venticinque anni fa seguii a Sassari, al Monte Rosello, un’appassionante sfida poetica fra due improvvisatori logudoresi. Uno interpretava la vita, l’altro la morte; intenti a dimostrare la superiorità dell’una o dell’altra,  ad ogni ottava mi facevano cambiare idea. Il tema della morte, il fragile confine che la separa dalla vita, la difficile discussione su cosa prevalga e sia più forte non a caso appassionano le civiltà umane e le menti di donne e uomini da sempre. Su tali concezioni le religioni si dividono profondamente, passando dalla promessa di una vita superiore, meravigliosa ed imperitura alla perfezione raggiunta nel non più reincarnarsi, nello sfuggire, liberandosene, dalla ‘ruota della vita’. Più difficile mantenere la linea che ha attraversato il pensiero glaciale eppure umanissimo (penso al suo saggio sul suicidio) di David Hume nel Settecento e le  scoppiettanti e corrosive denuncie di Voltaire. Capita perciò di arrivare assai problematicamente a quanto oggi divide la politica dell’Italia, attraverso sistemi di pensiero differenti, nella delicata questione del testamento biologico.
Succede anche di riflettere sulle storie che ci arrivano dall’antichità e dalla tradizione. In Sardegna ve ne sono almeno tre suggestive, due assai lontane ma rese più vicine dai toponimi che storici e linguisti hanno evidenziato, un’altra, legata alla figura dell’accabbadora (dal verbo ‘accabbare’, ‘finire,  portare a termine’), che racconti silenziosi e permeati di ‘pietas’ trasmettono con oggetti misteriosi e per noi agghiaccianti passando dalla storia delle nostre genti allo spazio scenico del fumetto d’orrore. Storie rituali dove sembra che i vivi intervenissero a gestire il passaggio dalla vita alla morte: il sacrificio degli anziani, ricordato da molte fonti per la Sardegna (e probabilmente di ambientazione preistorica), quello dei bambini – il molk fenicio– e, infine, la pratica dell’eutanasia gestita dalla controversa figura dell’accabbadora. Si tratta di riti diversi, legati a contesti ed epoche differenti sia per l’origine (ma la durata fu assai più lunga, almeno nel rito fenicio, dell’epoca che l’aveva prodotta: a Tharros il molk fu certamente in uso sino alla tarda età repubblicana; in nord-Africa ancora nei primi secoli del  cristianesimo) sia per la sfera sociale alla quale dovettero riferirsi. Mentre il sacrificio degli anziani e quello dei fanciulli sembrano riti di passaggio (il secondo  certamente pubblico e caratteristico della sfera urbana), il compito delle accabbadoras si svolgeva entro le mura domestiche in pietoso silenzio. Mentre il riso sardonico, secondo alcune fonti, sembrava accompagnare, assieme alle urla, la morte degli anziani precipitati in orridi burroni; nel sacrificio molk musiche di aulòi e timpani – e certamente canti – segnavano, alla periferia della città fenicia nello spazio aperto del santuario tofet, il passaggio per il fuoco di fanciulli già morti o destinati a morire.
E’ difficile parlare di ciò che queste cerimonie rappresentavano, ancora di più trarne significato per un discorso contemporaneo sulla vita e sulla morte. Per almeno due ottime ragioni: sono epoche e civiltà diverse che non ci appartengono, se non nella memoria della citazione o della suggestione. E, soprattutto,  la contraddizione vita/morte si muoveva anche e soprattutto su altri scenari, appartenente meno rituali eppure strutturali: le battaglie per il possesso e la proprietà, la guerra, le uccisioni dei nemici e degli eretici nei grandi campi degli eserciti o nelle singole pire dedicate a streghe, miscredenti e scienziati. Il piccolo martello di legno conservato nel Museo etnografico di Luras, appartenuto ad un’ignota  accabbadora, è una delle poche e incerte testimonianze di un rito che non può appartenerci. E per la verità nell’esposizione museale non è il vero medium, quanto la natura dei messaggi che ne filtrano forma e contesto di provenienza: da quelli del macabro e del racconto horror, alle anime pie che, contrarie all’eutanasia, traggono dal confronto con il piccolo martelletto ragioni di superiorità morale, dimenticando quel grande martello che era il Malleus maleficarum, lo spietato manuale della Santa Inquisizione. Più complesso ancora è comunicare il racconto intimo, doloroso eppure intriso di laica pietà, che viveva nelle case degli anziani terminali suggellando, con le accabbadoras, la fine del loro insondabile dolore.
Il percorso partito il XX settembre del 1860 dalla Breccia di Porta Pia, che cercava di creare le premesse per una distinzione fra convinzioni religiose e cittadinanza di uno Stato, oggi sembra nuovamente interrompersi. I discendenti degli antichi clandestini delle catacombe rendono ora catacombale la libertà di coscienza, invece che farne principio politico collettivo. Probabilmente, ammaestrati dalla vecchia talpa, dovremo cercare ancora nell’economia e negli interessi in essa operanti ciò che dà coerenza ad una confusione altrimenti incomprensibile, e denunciata dalla comunità medica, fra eutanasia e inutilità di un’assistenza artificiale (ingiustamente chiamata alimentazione),  fra retorica della vita ed accanimento terapeutico: spazi che diventano fertili occasioni per produrre grandi utili nei circuiti di assistenze confessionali e cliniche private, come per l’aborto, la procreazione non assistita, i ‘ricoveri’ per i malati di Alzheimer. L’incapacità di costruire e contrapporre all’ondata clerico-fascista, che è ancora alta,  un’opposizione laica senza che necessariamente sia anticlericale è uno dei segni dei nostri tempi italiani e del fallimento culturale del Partito Democratico.
E anch’io mi sento, come tanti, un cittadino in cerca di rappresentanza, che vive in una società incolta e crudele al punto, davvero estremo, di togliermi la capacità di decidere della mia esistenza. L’ipocrisia, l’ignoranza e la malafede di chi si erge a difensore della vita e realizza il peggior controllo statale su di essa, sulla mia,  è davvero insopportabile. La falsa coscienza di chi, da tali posizioni, non si accorge che esistono solo differenze di forma e non di sostanza con gli altri integralismi, è davvero insuperabile.

Qualche traccia bibliografica

Sergio Ribichini, Il tofet e il sacrificio dei fanciulli, Sardò 2, Chiarella, Sassari 1987.
Maria Giuseppa Cabiddu, Akkabbadoras: riso sardonico e uccisione dei vecchi in Sardegna,  in Quaderni Bolotanesi, 15, 1989, 343-68.
Massimo Pittau, Geronticidio, eutanasia ed infanticidio nella Sardegna antica, in L’Africa Romana, VIII, 1990 (1991), 703-11.
Attilio Mastino, Persistenze preistoriche e sopravvivenze romane nel condaghe di S. Pietro di Silki, in Diritto@Storia, Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, I, 2002, (Atti del Convegno sulla Sardegna Giudicale, Sassari-Usini, 16-18 marzo 2001)
Sergio Ribichini, Il riso sardonico: storia di un proverbio antico, Carlo Delfino editore, Sassari 2003.
Alessandro Bucarelli, Carlo Lubrano, Eutanasia ante litteram in Sardegna : sa femmina accabbadòra : usi, costumi e tradizioni attorno alla morte in Sardegna, Scuola sarda, Cagliari  2003.

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