I limiti del governo a distanza

1 Agosto 2017
Gianfranco Sabattini

Il termine “eurocrazia” è divenuto sinonimo di “sistema di governo imperniato sulle istituzioni UE, che indirizzano a distanza, e in molti casi vincolano pesantemente, le scelte politiche nazionali”; così esordisce Maurizio Ferrera in “Governare a distanza: responsabilità democratica e solidarietà sociale nell’Eurozona” (Il Mulino, n. 2/2017). Obiettivo di tale sistema di governo è assicurare la stabilità dell’euro e del funzionamento del mercato interno europeo, subordinando ad esso ogni altra politica comunitaria.

A differenza di una qualsiasi forma di governo democratico, quello burocratico europeo è fondato su un “preciso e vincolante” sistema di priorità, adottate sulla base del convincimento che, per governare la stabilità del mercato interno, i singoli Paesi aderenti all’Eurozona debbano attenersi a “inviolabili criteri di stabilità monetaria e fiscale”; a tal fine, è imposta la necessità che tutti i Paesi membri seguano rigidamente regole “uguali per tutti”, con l’erogazione di sanzioni in caso di un loro mancato rispetto.

Questo convincimento, mutuato dal neoliberismo in “salsa tedesca”, nella forma dell’ordoliberismo, poggia – afferma Ferrera – “su una forte diffidenza nei confronti della politica democratica, considerata come sfera ove prevalgono interessi di parte e contemporaneamente opportunistici che danneggiano sistematicamente l’economia”. Sennonché, è ormai diffusa la critica di chi ritiene l’eurocrazia una forma di governo “distopico”, ovvero antiutopistico, in quanto portatore di una modalità di governo indesiderabile, contrario ai valori di una autentica democrazia; in altri termini, una forma di governo che “pretende di decidere sulla base di certezze inconfutabili”, espresse dall’ideologia ordoliberista.

Il governo a distanza dell’eurocrazia ha provocato, a parere di Ferrera, una serie di deficit sul piano dell’equità, della democrazia e della legittimità dei processi decisionali. Ciò perché, invece di attivare un “circolo virtuoso” di convergenza delle situazioni economico-sociali dei singoli Paese, ha promosso la formazione di un assetto istituzionale che ha generato una divergenza e favorito la diffusione dell’idea che “le economie politiche dei vari Paesi possano essere costrette ad adottare un unico modello per la crescita e la competitività”; in tal modo, è stato inevitabile che il governo burocratico del mercato interno europeo, anziché concorrere all’”addomesticamento” del pluralismo dei gruppi d’interesse, abbia finito con lo scatenare “i demoni dell’antipolitica e del populismo”, motivandoli a criticare e spesso ad “attaccare” la stessa Unione Europea.

Come superare gli esiti del governo a distanza?, si chiede Ferrera; egli propone di superare il “governo distopico” europeo, attraverso un’analisi critica di alcuni suoi aspetti, al fine di pervenire alla formulazione di un “modello” di governo democratico dell’Eurozona, in grado di prefigurare un auspicabile futuro dell’unione economica e monetaria, congiuntamente alle possibili vie “per conciliare integrazione economica e solidarietà sociale”.

A parere di Ferrera, le democrazie contemporanee sono portatrici dell’idea che il Governo “faccia ciò che i cittadini vogliono”, appartenendo la sovranità al popolo e dipendendo la legittimità dal consenso di quest’ultimo; tuttavia, i rappresentanti del popolo devono esercitare il loro mandato responsabilmente, nel senso che le loro decisioni devono essere sorrette da “una certa distanza dalle contingenze elettorali e [da] una capacità lungimirante di bilanciare le considerazioni di principio con accurate valutazioni delle conseguenze nel far fronte a un flusso di problemi che non possono essere ami completamente prevedibili”; in conseguenza di ciò, la rispondenza delle decisioni dei rappresentanti del popolo ai suoi “desideri” deve essere, come si è detto, sempre coniugata all’assunzione di decisioni responsabili. Perché ciò possa avvenire, sottolinea Ferrera, sono necessari “specifici incentivi istituzionali”; ciò perché, le principali sfide che, con riferimento all’Europa, i leader nazionali devono affrontare (processo d’integrazione politica dei Paesi membri dell’Unione e contenimento delle difficoltà interne che l’integrazione comporta) richiedono la loro collocazione in una prospettiva di lungo termine.

Le decisioni che devono essere assunte nel momento presente comportano, infatti, sacrifici che possono essere compensati solo da vantaggi differiti; fatto, questo, che mal si concilia con la logica della competizione politica nei regimi democratici. Imporre, però, sacrifici attuali in cambio di probabili benefici futuri non rappresenta una “strategia efficace per vincere le elezioni” in sistemi pluralistici. In linea di principio, secondo Ferrera, l’Unione Europea dovrebbe facilitare l’azione dei leader nazionali con “incentivi e risorse per esercitare la responsabilità nei confronti sia delle interdipendenze transnazionali sia degli imperativi di lungo periodo”, il governo burocratico europeo, non solo non ha preso atto dell’esistenza delle difficoltà con cui devono confrontarsi i leader nazionali, ma le ha anche aggravate, facilitando il ricorso a livello europeo e nazionale di processi decisionali fondati su un sistema di “irresponsabilità organizzata”.

Tuttavia, secondo Ferrera, esisterebbero diversi elementi del governo a distanza che “potrebbe essere saggio e ragionevole conservare e persino migliorare”. La critica dell’eurocrazia è concorde nel sottolineare come il principio dell’austerità abbia concorso ad aggravare gli effetti destabilizzanti, soprattutto sui “regimi di cittadinanza sociale”; per questo motivo, persino “molti studiosi tedeschi […] pensano che l’euro vada in qualche modo smontato a causa delle sue perverse disfunzionalità”, sino a proporre “una rottura ordinata, negoziale e consensuale dell’Eurozona e di un ritorno al regime monetario pre-euro, basato su cambi flessibili entro bande predefinite”.

Benché si dichiari d’accordo sull’esigenza di un franco dibattito sulle disfunzionalità dell’euro, sul ritorno a un regime monetario pre-eurto, Ferrera è apertamente contrario; ciò perché, a suo parere, lasciare ora l’unione monetaria, per l’economia e la società dell’Italia, significherebbe fare un “salto in mare aperto” e commettere un errore fatale, soprattutto per un motivo che egli ritiene fondamentale: l’estrema debolezza della compagine nazionale; debolezza legata principalmente al fatto d’essere una nazione tenuta assieme da uno stato ancora molto difettoso, gravato da un debito pubblico molto alto, da un sistema antiquato di relazioni industriali, dalla persistente presenza di squilibri territoriali, da una diffusa economia sommersa, da un’insostenibile evasione fiscale, dalla presenza di una criminalità sistemica e, infine, ma non ultima per gravità, dalla sopravvivenza di mercati dei prodotti e dei servizi “mal regolati e ancora fortemente protetti”.

Per Ferrera, però, “sotto il malessere italiano c’è un cuore pulsante”, nel senso che il Paese possiederebbe “ancora un’ampia e robusta base industriale”, orientata verso le esportazioni, che avrebbe bisogno d’essere potenziata dal sostegno di un settore dei servizi molto più efficiente, “nonché da un ambiente istituzionale favorevole, compreso uno Stato sociale modernizzato”. Dopo il 2014, le condizioni dell’economia nazionale sono certamente migliorate; ciò però non significa che l’Italia si sia portata fuori da ogni pericolo e che, per consolidare questa sua posizione, debba fuoriuscire dall’euro, e neppure “che le cose debbano rimanere così come sono”.

Il regime burocratico è troppo vincolante “per il tipo di modernizzazione che si addice all’Italia”, per cui diventa necessario l’approfondimento dello studio diretto a verificare come la conservazione della moneta unica possa risultare compatibile con “modalità di governance economica e fiscale” alternative a quelle sinora privilegiate. Poiché tutte le alternative implicheranno un elevato grado di solidarietà interstatale, occorrerà confrontarsi, in particolare con la classe politica tedesca, perché le modalità di governance dell’euro siano inquadrate, nell’interesse di tutti i Paesi dell’Unione, in una prospettiva più corretta, nella consapevolezza che la conservazione di “una pericolosa e autolesionista spirale di contrapposizioni nazionali non è inevitabile” e che, al contrario, è nelle aspirazioni di tutti il suo superamento.

Tra gli economisti ed i politici, sono in molti a pensare che “per rendere l’unione monetaria più rispondente alle esigenze dei vari Paesi”, sia necessario dotarla di un grado di ridistribuzione dei surplus finanziari più efficace di quella sinora attuata, nella convinzione che l’”euro avrebbe potuto e dovuto essere progettato molto meglio sin dall’inizio”. Il fatto che ciò non sia avvento non significa, però, che quanto sin qui realizzato sia da rigettare; significa, al contrario, sperimentare un processo di riforma della governance dell’euro, nel convincimento – come afferma Ferrera – che ancora esistano margini di cambiamento, più di quanto le élite attuali siano pronte o capaci di riconoscere.

Ferrera è convinto della possibilità di cambiare la govermance dell’euro, anche perché non ritiene fondata l’idea che la crisi della moneta unica europea sia da imputarsi alla sregolatezza con cui i Paesi del Sud dell’Europa hanno governato i loro conti pubblici; al fine di smentire tale idea, s’impone l’urgenza di evidenze empiriche più dettagliate e precise, in merito “ai guadagni asimmetrici” dei quali hanno goduto i Paesi maggiormente distintisi nel sostenere la necessità del rigore monetario, a partire dalla Germania e dalle rigide posizioni assunte dal suo Ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, e dal Presidente della Deutsche Bundesbank, Jens Weidmann.

Smentire quest’idea, che la colpa della crisi dell’euro sia da attribuirsi ai Paesi poco virtuosi nella gestione delle loro finanze pubbliche, servirebbe tra l’altro a “disvelare” la sua infondatezza morale e ad evitare ciò che spesso nella gestione della crisi è accaduto con l’imposizione di politiche di umiliazione, basate “sul castigo paternalistico gerarchico, anziché sul fraterno incoraggiamento”; al riguardo, basta ricordare il trattamento riservato alla Grecia e si potrebbe aggiungere anche la famosa lettera con la quale la Banca Centrale Europea indicava al Governo italiano le misure di politica monetaria che dovevano essere adottare, per «rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità del bilancio e alle riforme strutturali».

Al fine di evitare che in futuro possano di nuovo verificarsi umiliazioni di tale natura, il primo passo da compiere deve essere quello di “una chiara affermazione dei principi”, ribadendo a chiare lettere l’uguaglianza politica di tutti i Paesi membri dell’Eurozona. Inoltre, Ferrera, sostiene la necessità di elaborare direttive di governo della moneta unica che tengano conto degli “standard sociali” esistenti all’interno dei singoli Paesi europei. Ciò potrà consentire di stabilire in modo appropriato il quantum di solidarietà e di ridistribuzione dei surplus finanziari che sarà necessario adottare per evitare il riproporsi di nuove crisi.

Cero, la sfida più difficile sarà quella di determinare gli standard ottimali di “solidarietà paneuropea”; al riguardo, tuttavia, occorrerà convincersi che, senza una prospettiva profondamente riformistica del governo a distanza dell’eurocrazia, sarà difficile procedere sulla via dell’unificazione politica dell’Europa. A tale fine, forse è giusto concludere con Ferrera, che occorreranno “massicci investimenti” di natura intellettuale, prima ancora che politici.

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