L’insegnamento degli Accordi di Bretton Woods

1 Agosto 2014
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Gianfranco Sabattini

Settant’anni fa, nel 1944, al “Mount Washington Hotel”, si riunirono nella città di Bretton Woods (New Hampshire), dal primo al ventidue luglio, i 730 delegati delle 44 nazioni che parteciparono ai lavori della “Conferenza Monetaria e Finanziaria delle Nazioni Unite” (United Nations Monetary and Financial Conference). Dopo un dibattito, durato tre settimane, i delegati firmarono i famosi Accordi di Bretton Woods, che valsero a stabilire le regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i Paesi alleati, ancora impegnati nella guerra contro il nazismo ed il fascismo. Scopo della Conferenza fu quello di stabilire, dopo la ricostruzione postbellica, come promuovere la crescita di tutti i Paesi del mondo in condizioni di pace e in presenza di una maggiore equità distributiva rispetto all’anteguerra.
In particolare, la Conferenza fissò un sistema di regole e procedure per controllare la politica monetaria internazionale, divenendo in tal modo il primo esempio nella storia di un ordine monetario mondiale totalmente negoziato. Tutti i Paesi che siglarono gli Accordi concordarono sul fatto che la dura lezione appresa dal caos monetario del periodo tra le due guerre dovesse essere necessariamente tenuta sempre presente, per impedire il formarsi dei conflitti di interesse tra gli Stati del tipo di quelli che condussero alla seconda guerra mondiale.
Nei partecipanti alla Conferenza, infatti, era bene impressa la recente esperienza della Grande Depressione del 1929, durante la quale i controlli sul tasso di cambio e le barriere commerciali portarono al disastro economico che colpì gran parte dei loro Paesi. Gli accordi di Bretton Woods fornirono la speranza di poter superare le criticità degli anni Trenta, periodo in cui il controllo del mercato dei cambi aveva compromesso il sistema di pagamenti internazionali su cui era basato il commercio mondiale. In quel lasso di tempo, infatti, i governi erano soliti ricorrere a politiche di svalutazione della loro moneta per aumentare le esportazioni, con lo scopo di contenere il deficit della bilancia dei pagamenti, causando però la contrazione della domanda finale, l’aumento della disoccupazione e il declino del commercio mondiale.
Ciò comportò una riduzione degli scambi a relazioni tra gruppi di sistemi economici che usavano la stessa valuta nella regolazione dei loro rapporti internazionali, come accadde ad esempio all’interno dell’area della sterlina o in quella del dollaro. La formazione di queste aree ostacolò la circolazione dei capitali e affievolì le opportunità degli investimenti esteri, provocando situazioni di crisi difficili da superare, sino a divenire uno dei motivi che condussero i principali Paesi industrializzati a vivere le dure conseguenze del secondo conflitto mondiale.
Le basi politiche degli Accordi furono individuate nel riconoscimento del ruolo e della funzione dell’intervento dello Stato nel governo dell’economia, nella convergenza delle comuni esperienze negative vissute dagli Stati partecipanti in occasione della Crisi del 1929 e nella consapevolezza che, dalla conclusione del conflitto, stava emergendo di fatto il potere dominante di un Paese, gli USA, propenso ad assumere il ruolo di regolatore del sistema dei pagamenti internazionali.
I progetti sui quali si discusse furono due, formulati indipendentemente l’uno dall’altro qualche anno prima: quello dell’inglese John Maynard Keynes, risalente al 1941, e quello dell’americano Harry Dexter White, risalente al 1942. Il progetto di Keynes prevedeva la costituzione di una “Stanza di Compensazione” dei rapporti di debito e credito internazionali, alla quale i Paesi membri avrebbero partecipato con quote rapportate al volume del loro commercio internazionale, in base alla media dell’ultimo triennio. Il piano White, invece, prevedeva un “Ente Sovrannazionale”, nel quale i Paesi avrebbero avuto un “peso decisionale” rapportato alla quota del capitale sottoscritto; essi, in caso di necessità, avrebbero potuto ottenere prestiti in proporzione a tale quota. La compensazione dei rapporti di debito e credito sarebbe avvenuta tramite una moneta (unità di conto) denominata “Bancor” all’interno di un sistema monetario internazionale dollaro-centrico. Gli Accordi siglati furono un compromesso tra i due piani, in cui prevalsero le proposte contenute nel piano White.
Le istituzioni su cui si programmò il rilancio del mercato internazionale e dello sviluppo postbellico furono il “Fondo Monetario Internazionale” (FMI), al quale venne affiancata la “Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo” (BIRS). Il primo aveva il compito di vigilare sulla stabilità monetaria e di concedere prestiti agli Stati in situazioni di disavanzo, a condizione che tutte le valute fossero state convertibili in dollari, che le Banche centrali si fossero impegnate a conservare un cambio stabile con il dollaro e che la svalutazione delle monete nazionali fosse praticata solo se approvata dal FMI. In pratica, si trattava del ricupero di un sistema monetario internazionale, il “Glod Exchange Standard”, concepito all’indomani della fine della Grande Guerra, ma mai decollato per via degli egoismi nazionali. Esso venne basato su rapporti di cambio fissi tra le valute dei Paesi che siglarono gli Accordi, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro.
Gli accordi di Bretton Woods favorirono la ricostruzione del un sistema economico mondiale fondato su un mercato libero, ma regolato, che permise a tutte le economie che lo adottarono, nel periodo di tempo compreso tra il 1945 ed il 1975 (non a torto denominato “I Gloriosi Anni Trenta”), di realizzare una crescita ed uno sviluppo mai sperimentati in passato. Al termine di questo periodo, l’impalcatura istituzionale negoziata a Bretton Woods entrò in crisi, in parte per gli effetti di un’anomala espansione della spesa pubblica degli USA, ma soprattutto a causa degli egoismi nazionalistici, mai rimossi completamente e sempre “attivi”, per quanto ovattati dal ricordo dell’esperienza negativa vissuta nel periodo tra le due guerre, e anche dalla reazione conservatrice (reaganismo e teacherismo) che imputò le fasi recessive delle economie di mercato negli anni Settanta all’eccessiva espansione dell’interferenza dello Stato nella regolazione dell’economia, per ragioni di giustizia sociale.
Dopo che, all’inizio degli anni Settanta, il sistema dei cambi fissi messo a punto dagli Accordi del 1944 crollò, il FMI sembrò perdere la sua funzione originaria; gli USA, però, contribuirono a realizzare una nuova forma di stabilizzazione dei cambi, consentendo la sopravvivenza delle istituzioni create a Bretton Woods, attraverso la revisione dei loro obiettivi. Il FMI e la BIRS continuarono la loro attività, mentre l’”Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio” (GATT), concluso nel 1947 con lo scopo di favorire e potenziare la liberalizzazione del commercio mondiale, è stato sostituito da quello che portò alla costituzione, nel 1995, dell’”Organizzazione Mondiale del Commercio” (WTO).
Allo stato attuale, gli USA, ancora massima potenza egemone sul piano economico a livello mondiale, sono orientati ad approfondire i propri rapporti con le potenze economiche emergenti nell’area del Pacifico; viene perciò spontaneo chiedersi se, per caso, la convergenza degli USA verso la Cina non sia il preludio della replica di un nuovo sistema monetario internazionale à la Bretton Woods in “salsa asiatica”. Un’eventualità siffatta non può essere esclusa, se si considera che i due Paesi potrebbero trovarsi a dover subire una forte pressione, simile a quella che gravò sui partecipanti alla Conferenza del 1944. Oggi, un patto globale tra le due massime potenze economiche mondiali potrebbe imporsi come un’urgente necessità o per superare la crisi del capitalismo attuale, o per scongiurare il timore che il verificarsi di una crescita “drogata” da bolle speculative possa indurre il resto del mondo a tornare al protezionismo degli anni Trenta, nella prospettiva di scenari futuri di difficile accettazione per tutti.
Come si configura la posizione dell’Europa di fronte a questa prospettiva? Il vecchio continente sembra essere estraneo a queste nuove preoccupazioni; prova ne è il fatto che, dopo l’inizio della crisi dei subprime americani, nella quale anche l’Europa è stata coinvolta, i Paesi egemoni sul piano economico dell’Unione Europea, anziché accollarsi “l’onere e l’onore” di favorirne il superamento con la costituzione di uno stabile sistema monetario, utilizzando i loro surplus valutari (così come fecero gli USA dopo il 1944) hanno preferito, con in testa la Germania, ritirarsi egoisticamente a tutela dei loro esclusivi interessi nazionali. La mancata considerazione, da parte di questi Paesi, della lezione di Bretton Woods li ha spinti a non considerare che, nel lungo periodo, l’assenza di un’area valutaria stabile potrebbe riproporre, a danno di tutti, lo spettro finale degli anni Trenta; non sarebbe un obiettivo esaltante per chi, come ad esempio la Germania, oggi si illude di poter dare lezione di buon governo agli altri, senza assolvere agli obblighi contratti con la firma dei Trattati costitutivi dell’Unione, implicitamente equivalente all’impegno a trasformare quest’ultima da semplice mercato in un nuovo soggetto istituzionale politicamente solidale.

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