Premio di maggioranza ed elezione diretta del presidente: l’insostenibilità del modello regionale vigente

1 Marzo 2017
Omar Chessa

Già dalla sua prima apparizione con la legge Calderoli del 2005 (il c.d. Porcellum) il premio di maggioranza non ha goduto di buona stampa: i denigratori sono sempre stati più numerosi dei laudatori. Eppure, sembrava che il nostro sistema politico non potesse farne a meno, tanto che sia il centrodestra (con la legge Calderoli) che il centrosinistra (con l’Italicum di Renzi) hanno adottato formule elettorali imperniate su questo meccanismo premiale.

Sappiamo quale sia l’orientamento della Corte costituzionale: ha detto che il premio di maggioranza senza soglia è incostituzionale e che nessun premio può attribuirsi mediante un secondo turno di ballottaggio (se nessuna forza politica raggiunge al primo turno almeno il 40 per cento dei consensi). Tuttavia i giudici costituzionali ritengono che se provvisto di una soglia ragionevole il meccanismo premiale non sia illegittimo e che sia, anzi, un bilanciamento equilibrato tra i due principi della “rappresentatività” e della “governabilità”, poiché sarebbe volto ad assicurare «la stabilità del governo» e la “rapidità del processo decisionale», senza comprimere in modo eccessivo la funzione rappresentativa dell’assemblea elettiva.

Non entro nei dettagli delle due pronunce – le sentt. 1 del 2014 e la recentissima 35 del 2017 – che hanno fissato questa “dottrina”, perché il discorso porterebbe lontano.

Qui dico solo che è tutto da dimostrare che una soglia del 40% e, prima ancora, la stessa previsione di un premio di maggioranza possano veramente assicurare sia la «rapidità del processo decisionale» che la «stabilità del governo». Trasforma sì una minoranza elettorale in maggioranza parlamentare assoluta, così che all’esito del voto il partito più forte abbia i numeri occorrenti per votare con successo la mozione di fiducia al nuovo Governo. Ma non garantisce certo che questa maggioranza parlamentare rimanga tale per tutta la legislatura, né che sia disposta ad assecondare prontamente e sistematicamente l’iniziativa governativa (che infatti per raggiungere i suoi scopi deve fare leva principalmente su un istituto del diritto parlamentare come la questione di fiducia).

E neppure può dirsi che il meccanismo premiale, pur non assicurando automaticamente e necessariamente la stabilità e la coesione dell’indirizzo politico di maggioranza, sia però un potente incentivo affinché il sistema operi in vista di questo risultato. Infatti, se è vero che per raggiungere la soglia del 40% si devono comporre delle liste “pigliatutto”, per forza di cose eterogenee e disomogenee, alla fine alla maggioranza parlamentare assoluta corrisponderà un arco variegato di forze, culture, identità, interessi assai diversi, che difficilmente potranno tenersi stabilmente assieme sotto un indirizzo politico condiviso, come del resto è provato dal rendimento del sistema politico-istituzionale negli ultimi anni.

Ma il premio di maggioranza non è solo disfunzionale rispetto all’obiettivo che si prefigge: non è certo peregrino il dubbio che sia anche distorsivo della rappresentanza democratica e della regola del voto uguale. Certo, sotto questo profilo non è più distorsivo del collegio uninominale all’inglese: anche questo sistema muta una maggioranza elettorale relativa, cioè una minoranza elettorale, in maggioranza parlamentare assoluta. Anzi, per certi versi il premio di maggioranza è persino preferibile, perché comunque trasforma in maggioranza non una minoranza qualsiasi, ma quella più forte, mentre col collegio uninominale all’inglese può anche succedere che sia la minoranza elettorale meno forte a diventare maggioranza parlamentare: dipende dalla distribuzione territoriale dei voti. Per questo motivo non capisco i laudatori italiani dell’uninominale all’inglese (il doppio turno alla francese è già tutt’altro). E soprattutto non colgo la ragione per cui il premio di maggioranza sarebbe meno democratico e più distorsivo del sistema anglosassone.

Sennonché, guardando al modo in cui il premio di maggioranza è articolato nella legge sarda che disciplina l’elezione del Consiglio e del Presidente, la valutazione di cui sopra deve essere ribaltata. Infatti, mentre a livello nazionale ciò che fa scattare il premio è il risultato conseguito da una lista di candidati alla carica parlamentare, invece a livello regionale ciò che potrebbe far scattare il premio è il risultato conseguito dal candidato alla presidenza: non è il risultato della forza politica che concorre alla ripartizione dei seggi consiliari, ma il risultato di chi concorre a un’altra carica. Sicché può essere del tutto indifferente il risultato delle forze politiche o coalizioni di forze politiche che direttamente sono candidate a ricoprire quei seggi.

È come se due squadre di calcio giocassero una partita, ma la vittoria tra le due fosse decisa non dal punteggio conseguito dalle due squadre in competizione, ma dalla partita di tennis individuale giocata nel campo adiacente! Questo può generare un effetto paradossale: che la squadra di calcio che si è dimostrata più forte segnando più reti, possa comunque perdere la partita, se nel campo da tennis il proprio candidato perde. Insomma il premio regionale può consegnare la maggioranza consiliare alla minoranza elettorale più debole, perché quello che conta ai fini della vittoria generale è l’elezione presidenziale.

Questo a me pare difficilmente conciliabile con la nostra cultura costituzionale. Non è concepibile che l’elezione dell’organo monocratico sia centrale e quella dell’organo collegiale sia accessoria, marginale e dipendente dalla prima. Non è accettabile che l’elezione consiliare vada a rimorchio dell’elezione presidenziale. Nei sistemi democratici il perno è sempre l’assemblea elettiva: anche nei sistemi presidenziali è così, dove infatti il parlamento è sempre molto forte. Noi invece ci siamo abituati a pensare che la vera funzione rappresentativa sia quella del Presidente.

È un modello che indebolisce oltremisura l’assemblea elettiva, sia di fronte al corpo elettorale, il quale in taluni casi può essere indotto a non riconoscersi nella composizione consiliare, sia nei confronti del Presidente, cui deve la sua composizione. E questo nodo è arrivato al pettine, perché abbiamo un Consiglio regionale la cui maggioranza non è espressione né della maggioranza elettorale né della minoranza elettorale più forte, ma è espressione della minoranza elettorale più debole. Anzi, è espressione della minoranza elettorale più forte che ha eletto il Presidente, cioè che ha eletto un altro organo!

Si può rinunciare al premio regionale di maggioranza? Dipende da quello che si vuol fare con la forma regionale di governo e in particolare col modello dell’elezione presidenziale. Già dal 2004 la Corte costituzionale ha chiarito che l’investitura popolare diretta del capo dell’esecutivo regionale comporta il meccanismo del simul stabunt simul cadent nei rapporti coll’assemblea elettiva: se il Consiglio sfiducia il Presidente eletto direttamente, questo deve dimettersi e si va a elezioni anticipate obbligatorie; lo stesso, se è il Presidente a dimettersi motu proprio o se muore oppure se è colpito da impedimento permanente. È evidente perciò che senza il premio di maggioranza, che assicura, per dirlo con le parole della Corte, una «presunzione di consonanza politica» tra esecutivo e legislativo, la forma di governo regionale sarebbe insostenibile: anche per l’elezione diretta del Presidente e il premio di maggioranza si potrebbe dire aut simul stabunt aut simul cadent. “O stanno assieme o cadono assieme”.

Il vero problema, allora, è se non sia venuto il momento di fare un bilancio approfondito della forma di governo vigente. Ricordo che questa può essere riformata dal Consiglio regionale mediante legge statutaria (eventualmente seguita da referendum confermativo). Nel 2007, durante la presidenza Soru, venne approvata una legge statutaria che confermava il modello dell’elezione presidenziale diretta (previsto in via transitoria dalla legge costituzionale n. 2 del 2001), ma non fu confermata dalla consultazione referendaria, poiché non si raggiunse il quorum stabilito dalla legge. Sicché, a tutt’oggi, si applica il regime transitorio previsto dal legislatore nazionale.

È arrivato il momento, dunque, che pure in Sardegna, come già è accaduto nelle altre regioni da qualche anno, si prenda una decisione consapevole su quale debba essere il nostro modello istituzionale: se abbiamo la possibilità di scegliere la forma di governo, eventualmente adattando il modello vigente alle nostre esigenze, perché mai non dovremmo esercitare questa autonomia anziché continuare ad applicare le regole che altri hanno stabilito per noi? Come si spiega quest’inerzia della politica regionale?

Temo che la risposta sia da ricercarsi proprio nella forma di governo vigente, che assicura, sì, una grande stabilità dell’esecutivo, ma al prezzo di un insostenibile immobilismo. Credo infatti che la stabilità del governo regionale, quale è assicurata dall’elezione diretta e dal complesso meccanismo del simul stabunt simul cadent, non sia un valore in sé, ma che acquisti senso e funzione quale presupposto di un’azione di governo coesa ed efficace: se questa manca, la stabilità diventa un dis-valore, perché ingessa il quadro politico e limita fortemente la naturale dinamicità dei sistemi democratici.

Dopo aver osservato per anni il rendimento effettivo del modello regionale, mi sono convinto che esso induca negli attori politici una modalità di comportamento e di rapporti non dissimile da quella che è tipica del governo presidenziale statunitense, dove la regolare, fisiologica assenza di un indirizzo politico veramente condiviso tra esecutivo e legislativo condanna la vita politica a una sostanziale inerzia, frustrando qualsiasi ipotesi di riforme e legislazioni veramente innovative. D’altronde, il modello presidenziale americano fu appositamente congegnato dai Framers proprio allo scopo di “complicare” l’azione di governo, assoggettandola a un regime paralizzante di checks and balances, di freni e contrappesi che riducessero grandemente la capacità del federal government di incidere nel tessuto sociale della nazione. Come scriveva Madison, il disegno costituzionale liberale deve contrapporre l’interesse all’interesse, l’ambizione all’ambizione, in modo che stenti ad affermarsi un indirizzo politico unitario tra le varie branches of government e rimanga sostanzialmente imperturbato l’ordinamento sociale borghese.

Ecco, il governo presidenziale delle regioni italiane obbedisce alla medesima logica istituzionale. È vero che negli USA la stabilità è data dal fatto che gli organi federali di governo hanno una durata fissa e che non c’è la possibilità dello scioglimento anticipato del Congresso. Al contrario, i nostri organi regionali di governo non hanno una durata fissa, perché è possibile lo scioglimento del Consiglio e le dimissioni del Presidente (motu proprio o per effetto di sfiducia). Tuttavia, poiché le dimissioni/sfiducia del presidente e lo scioglimento del consiglio devono essere contestuali, l’effetto è che si annullano vicendevolmente, producendo un funzionamento fisiologico del sistema assai simile a quello statunitense: i consiglieri, anche se non condividono più la linea presidenziale, non sfiduciano l’esecutivo per non andare a elezioni anticipate; e da par suo, il Presidente sa bene che punendo la sua maggioranza con le dimissioni e il conseguente scioglimento anticipato, rischierebbe di non essere ricandidato e di compromettere definitivamente la propria carriera politica.

È insomma la stabilità del “tirare a campare”, che paga il prezzo dell’inazione generata dalla sostanziale mancanza di sintonia politica tra esecutivo e legislativo. Peraltro è una stabilità che è sempre appesa al filo sottile delle vicende che riguardano il Presidente: le sue dimissioni, infatti, possono essere determinate da eventi vari, anche imprevedibili (un colpo di testa, una malattia grave, la morte, la stanchezza di chi vorrebbe cambiare vita o ritornare alla vita precedente la carica, una fuga d’amore, ecc.). Ma è accettabile che la durata della legislatura e quindi la tenuta del quadro politico complessivo possa dipendere dagli eventi personalissimi di un singolo individuo?

Nel rivedere la forma di governo regionale occorre però considerare l’art. 15 del nostro Statuto speciale: questo attribuisce alla legge statutaria il compito di determinare «la forma di governo della Regione e, specificatamente, le modalità di elezione, sulla base dei princìpi di rappresentatività e di stabilità». Come si vede, quali che dovessero essere le valutazioni del Consiglio, in ogni caso la forma di governo dovrà assicurare, ad un tempo, “rappresentatività” e “stabilità”. Quanto al primo obiettivo, sarà automaticamente conseguito per il solo fatto di rimuovere il premio di maggioranza (che è difatti il principale fattore distorsivo della rappresentanza politica, visto che genera una grande sproporzione tra voto popolare e assegnazione dei seggi consiliari, tanto più se è congegnato in modo da consentire alla minoranza elettorale più debole di diventare maggioranza consiliare assoluta). Quanto al secondo obiettivo, i modelli parlamentari conosciuti sperimentano da tempo un ampio ventaglio di soluzioni in grado di stabilizzare i rapporti tra assemblea elettiva ed esecutivo: dal meccanismo della sfiducia costruttiva ad altri istituti di “razionalizzazione parlamentare”, fino a formule elettorali effettivamente in grado di indurre processi di aggregazione partitica nella direzione di un multipartitismo temperato.

È evidente però che una discussione pubblica approfondita su queste diverse soluzioni non potrà mai aprirsi se prima non ci liberiamo dell’ipoteca costituita dal modello dell’elezione presidenziale diretta.

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