L’Italia è un Paese razzista

1 Luglio 2018
[Andria Pili]

Il volto razzista del populismo reazionario (M5S-Lega) di governo, mostrato con la mortifera chiusura dei porti e la proposta di censimento su base etnica per i Rom, ha sollevato non solo l’indignazione di chi ancora conserva umanità ma anche degli interrogativi sull’Italia e gli «italiani». Dato il crescente consenso verso il partito di Salvini, l’Italia è diventata razzista? A mio giudizio, il quesito più indicato sarebbe: l’Italia è mai stata non razzista?

L’attuale immigrazione ha aperto il vaso di Pandora dello Stato-Nazione italiano, portando in superficie tutti i problemi interni alla sua costruzione e riproduzione. Gli immigrati sono descritti come una molteplice minaccia, per: un’identità culturale da conservare in nome della superiore civiltà (l’immigrato è incivile); la competizione nel mercato del lavoro (l’afflusso di immigrati crea disoccupazione e abbassa i salari; la sopravvivenza etnica (la maggiore prolificità degli immigrati porterà all’estinzione degli italiani); la sicurezza (l’immigrato è un delinquente naturale). In questo senso, si effettua una distinzione fra immigrati buoni e cattivi sulla base di un discorso di integrazione rivelante le contraddizioni di tutti i nazionalismi statali che, pur affermando il proprio civismo non riescono a separarsi dalla dimensione etnica del concetto di nazione. Un recente libro curato dai ricercatori Vincenzo Carbone, Enrico Gargiulo e Maurizia Russo Spena (I confini dell’inclusione, DeriveApprodi 2018) ha mostrato il legame fra la «civic integration» e meccanismi di tipo coloniale nella misura in cui gli immigrati – come i colonizzati – devono recepire la cultura occidentale, per il loro stesso bene: entro il confine tra l’inclusione civica e l’esclusione etnica, essi sono continuamente valutati sulla base della propria conformità a determinati comportamenti e valori ritenuti condivisi dalla cittadinanza «nativa»; gli stessi, dunque, hanno il dovere di mostrarsi grati verso lo Stato e gli autoctoni che hanno concesso loro di essere civili e di avere un lavoro[1].

Questo meccanismo di inclusione/esclusione entro i confini dello Stato-Nazione italiano ha operato storicamente – e in parte continua a farlo – pure all’interno del perimetro dei cittadini. In questo senso, il razzismo ha sempre svolto un ruolo importante nello Stato unitario[2], entro la geografia immaginativa Nord-Sud, al fine di spiegare il persistente divario di sviluppo economico tramite cause biologiche o «culturali». Ostacolando le spiegazioni chiamanti in causa precise responsabilità del potere politico ed economico, si finì per colpevolizzare le vittime e, di fatto, giustificare una gerarchia all’interno della società «italiana» tra le aree più europee e quelle ritenute più prossime all’Africa. I meridionali e i sardi erano descritti come naturalmente portati a delinquere; più recentemente, al discorso razzista scientifico[3] si è sostituito quello legato alla «modernizzazione», indicata come il traguardo necessario che gli stessi avrebbero potuto raggiungere abbandonando la propria cultura tradizionale[4] . I cittadini di queste regioni sono comunemente indicati come italiani degeneri, inseriti entro una contraddittoria dinamica di inclusione/esclusione, per cui si chiede loro di dimostrare la propria italianità/modernità/civiltà al fine di non essere una «palla al piede» per il “Paese”, dando prova di essere finalmente divenuti dei degni cittadini[5].

La Sardegna è un caso particolare: non necessaria alla costruzione nazionale italiana, la sua italianità viene, oggi, spesso attribuita ad una presunta scelta volontaria[6], al fine di abbracciare determinati valori superiori che l’Italia incarnerebbe. Entro questo discorso si è inserito il mito razzista della Brigata Sassari e del tributo di sangue con cui i sardi – bravi soldati proprio in quanto selvaggi, abili al combattimento in quanto privi delle inibizioni della civiltà[7] – si sarebbero guadagnati l’italianità, creando così un legame indissolubile con gli italici; non a caso i Dimonios sono continuamente chiamati in causa dagli stessi politici sardi, al fine di richiedere l’accesso a pieni diritti di cittadinanza mediante ulteriori risorse dallo Stato centrale (la retorica intorno al referendum per l’insularità in Costituzione è solo l’ultimo esempio di questo complesso che vuole che i sardi debbano diventare «italiani come gli altri» per essere migliori).

Argomento chiaramente coloniale-razzista è anche quello utilizzato dalla propaganda militarista, che vuole i sardi incapaci di utilizzare a proprio vantaggio i terreni che attualmente gli sono sottratti dai poligoni militari i quali svolgerebbero, inoltre, una funzione civilizzante (sviluppo, trasferimento di tecnologia) oltre che di tutela ambientale (protezione che i sardi non saprebbero esercitare). I sardi dovrebbero quindi essere grati agli italiani per questo. Non mi pare diverso da chi ritiene, in clamorosa continuità con il colonialismo, che l’Europa possa impedire l’immigrazione portando lo sviluppo economico in Africa, grazie a generose opere di bene per aiutarli «a casa loro».

La traiettoria della Lega – dal secessionismo nordista a partito mascherante gli interessi nordisti entro il nazionalismo italiano – dovrebbe insegnare molto sullo Stato italiano e il suo sciovinismo, oltre che sul razzismo strutturale che ne segna l’esistenza da sempre. È singolare invece che, al contrario, si utilizzi tale partito politico per demonizzare gli indipendentismi europei. Estenderei le mie riflessioni anche a Francia e Spagna, al rapporto conflittuale tra il nazionalismo di Stato e le nazionalità interne, anche qui con un occhio di riguardo verso comunità ritenute “arretrate” (Galizia, Andalusia, Corsica, Iparralde). Credo che l’incapacità di affrontare in maniera “umana” la questione immigrazione sia legata alla natura stessa degli Stati-nazione. Dobbiamo ripensare il nostro modello sociale, politico ed economico; per questo importante compito ritengo necessario riconoscere sia il colonialismo interno che riflettere sul nazionalismo di Stato in ogni sua declinazione.

 

[1]    Esiste una corrente di studiosi italiani – penso, per citarne alcuni, ai lavori di Miguel Mellino e Anna Curcio – che ugualmente mostrano la persistenza della «razza» come «costruzione discorsiva» nella società italiana

[2]    A proposito di questo legame, è significativo che uno dei più importanti storici del colonialismo italiano, Angelo Del Boca – nel suo Italiani brava gente?, 2005 – abbia posto la lotta al brigantaggio meridionale come il prologo delle violenze coloniali italiane; sulla stessa scia, lo studioso Carmine Conelli, nel saggio «Razza, colonialità e Nazione. Il progetto coloniale italiano tra Mezzogiorno e Africa» in «Quel che resta dell’Impero»  – curato da Valeria Deplano e Alessandro Pes, Mimesis, 2014 – ha spiegato lo stessa repressione come violenza coloniale. Analoga è stata, in Sardegna, la lotta al banditismo interpretato come il segno dell’inferiorità razziale di un’intera comunità – specie delle zone interne – chiamata in causa in quanto tale (Caccia grossa di Giulio Bechi, 1899 è una chiarissima prova di questo).

[3]    L’antropologo Vito Teti in La razza maledetta, manifestolibri 1993, offre una bella rassegna di queste teorie in voga tra l’ultimo quarto del XIX secolo e l’inizio del del XX.

[4]    Il sociologo Alessandro Mongili ha mostrato, attraverso l’utilizzo dei subaltern e postcolonial studies, questo processo per la Sardegna in Topologie postcoloniali, 2016 ponendolo in relazione ai complessi d’inferiorità legati al rapporto diglossico fra la lingua sarda (ritenuto proprio dei lavoratori legati ai settori tradizionali)  e la lingua italiana (idioma utilizzato dalle classi sociali più elevate, proprio di chi ha abbracciato la modernità) mostrando le analogie con altri casi di oppressione (es. i chicanos negli USA)

[5] Sull’importanza degli stereotipi sui meridionali entro la costruzione dell’italianità consiglio «Italianità. La costruzione del carattere nazionale», Laterza 2010, di Silvana Patriarca e «The view from Vesuvius. Italian Culture and southern question» di Nelson Moe, University of California Press 2002.

[6]    Anche se non sono mancati intellettuali che hanno postulato l’italianità naturale dei sardi (Martini, Tola, Siotto Pintor) oltre che l’appartenenza all’Italia come suo destino (Manno).

[7]    Vedi la «Storia della Brigata Sassari» di Giuseppina Fois, Gallizzi 1981

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