L’ottimismo fa bene all’economia

16 Ottobre 2015
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Gianfranco Sabattini

Molti studi empirici dimostrano che l’ottimismo è un sentimento decisivo per il successo nel campo dell’economia, anche se la biologia umana predispone l’uomo a cogliere il pericolo, trasformandolo fondamentalmente in attore pessimista; ma per sua fortuna il pessimismo può essere attenuato dalla maggiore attenzione che l’uomo può prestare all’esperienza positiva che ha l’opportunità di vivere ogni giorno. Lo sostiene Steven Kotler, assegnista di ricerca presso l’”Institute for International Economics”, nell’articolo “L’economia dell’ottimismo”, pubblicato sul n. 66/2014 di “Aspenia”.

Nel corso degli ultimi decenni, afferma Kotler, gli esperti di molte discipline dell’uomo, quali l’economia, la neurologia e la psicologia, hanno evidenziato i benefici esistenziali che possono derivare dalla fiducia che l’uomo stesso può riporre nella prospettiva di “un domani migliore”. Ad inaugurare questa linea di ricerca è stato uno psicologo dell’Università della Pennsylvania, Martin Seligman, verso la metà degli anni Ottanta. A quell’epoca, una compagnia di assicurazione ha sottoposto a Seligman il problema del miglioramento delle modalità di selezione e formazione del proprio personale addetto alle vendite; l’impresa assicurativa selezionava ogni anno un certo numero di canditati, spendendo cifre considerevoli nella loro formazione, ma subendo l’esito negativo connesso al fatto che, nel giro di dodici mesi, la metà dei nuovi assunti abbandonava il posto e quattro su cinque se ne andavano dopo cinque anni.

Seligman, ha integrato il test standard di “screening” tradizionalmente usato dall’impresa, introducendo un nuovo test, volto a misurare il livello di ottimismo, ossia della “fiducia rispetto al futuro, alle opportunità di successo personale, alla capacità di superare gli ostacoli” dei diversi candidati; dopo aver monitorato alcune migliaia di possibili nuovi agenti di vendita, dei quali un gruppo, composto da candidati che non avevano superato il test tradizionale dell’impresa, ma che secondo quello di Seligman rientravano nel novero dei “superottimisti”, in via sperimentale è stato assunto. Nel giro di un anno, i “superottimisti” hanno conseguito un vantaggio sulle vendite del 21%; approfondendo l’analisi del campione osservato, Seligman ha dimostrato che gli ottimisti vendevano il 37% in più dei pessimisti, mentre i “superottimisti”, pari al 10% del campione, l’88% in più. Successivamente, egli ha allargato l’indagine ad altri settori, mettendo in evidenza la costanza dei risultati originariamente riscontrati per l’impresa assicurativa. Pertanto, l’interrogativo che è insorto è stato: perché l’ottimismo fa premio sul pessimismo?

La risposta l’hanno data i neurologi e gli psicologi; la causa va ricercata nel cervello e nei meccanismi con cui esso elabora le informazioni. Queste sono filtrate dall’”amigdala”, che funge da rilevatore di pericolo; l’amigdala, avente una struttura ovoidale (in greco amygdala significa mandorla) è una parte del cervello che gestisce le emozioni; a livello anatomico-scientifico è definita anche come un gruppo di strutture nervose interconnesse che regolano le emozioni primarie, come la paura; essa programma il cervello a sopravvalutare le minacce e a sottovalutare le opportunità e le capacità di affrontare i pericoli esterni; la psicologia considera il fenomeno come “bias” (dalla etimologia incerta) della negatività, ovvero come un pre-giudizio sviluppato sulle situazioni esterne sulla base delle informazioni possedute, non necessariamente supportato da elementi logicamente connessi. Tuttavia, dal punto di vista cognitivo, quando il bias della negatività caratterizza le valutazioni dei pessimisti, questi non hanno altra alternativa esistenziale che vivere in uno stato ansioso e di paura, con gravi ripercussioni sugli esiti delle decisioni assunte. Il contrario accade agli ottimisti, i quali, sicuri di sé, tendono ad esplorare tutte le opzioni possibili alle quali ricorrere per evitare la percezione di possibili situazioni avverse.

Ottimisti, però non si nasce, si può solo diventarlo. In altre parole, se l’amigdala predispone naturalmente l’uomo ad essere ipersensibile al pericolo, essa può però essere resa sensibile anche all’ottimismo; ciò perché il cervello è un organo plastico, sensibile anche alla ricezione delle esperienze positive, attraverso cui può essere rimodellato. Da ciò consegue, secondo gli psicologi, che, in virtù del rapporto positivo che lega l’ottimismo al successo, come dimostrato dalle ricerche di Seligman, l’uomo dovrebbe fare tesoro dei momenti positivi dell’esperienza vissuta, per rinforzare la propria amigdala a “conservarlo” sempre ottimista nell’interpretazione degli stimoli esterni percepiti.

A rendere più interessante l’importanza dell’ottimismo nell’affrontare le sfide ricorrenti nella vita di tutti i giorni, vi è, secondo Steven Kotler, la questione dell’”engagement”, cioè il fatto che l’ottimismo è strettamente legato al coinvolgimento; da numerose ricerche sul campo emerge infatti una relazione diretta tra il coinvolgimento dei dipendenti di un’impresa ed il successo di questa; ciò perché i dipendenti “coinvolti” rendono molto di più dei quelli “non-coinvolti”, tanto che, in alcuni casi, il tasso di successo dei primi è risultato quattro volte superiore a quello dei secondi.

Le considerazioni svolte sul rapporto esistente tra ottimismo e successo nella sfera dell’attività economica e quelle sopra accennate sulla questione del coinvolgimento portano a riflettere sulla qualità dello stato emotivo collettivo indotto dalla situazione economica e sociale prevalente all’interno di un Paese che, per le generazioni più giovani, qualora il Paese sia caratterizzato da una situazione di instabilità e di incertezza riguardo al futuro, non abbia uguali nella sua storia più recente. L’orientamento all’ottimismo dell’amigdala dei cittadini dipende unicamente dalla capacità di chi li governa a prefigurare, attraverso un’attività di riforma delle obsolete strutture economiche, politiche e sociali, un futuro per tutti meno incerto. Ciò, però, è reso impossibile, non solo per l’inerzia e l’incapacità della classe politica di dare risposte efficaci ai problemi che attendono d’essere risolti da tempo, ma anche, e soprattutto, per il mancato coinvolgimento, secondo forme più dirette nell’assunzione delle decisioni collettive, di tutti i cittadini, spesso inopportunamente e fatalisticamente messi a tacere con l’invocazione da parte di chi li governa dell’urgenza e della necessità imposte da centri decisionale esterni.

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