Microfono bene comune

1 Marzo 2012

Marcello Madau

Mi è piaciuta l’atmosfera, l’aria che si respirava a Bologna. Sarà che siamo abituati a dirci le cose in faccia, ma mi sentivo in alta montagna. Due cose, tra di loro connesse, mi hanno colpito: un giovane giornalista freelance di una radio bolognese, Radio Città Fujiko, che portava le letture contradditorie eppure più che comprensibili di una generazione (anzi, di una delle generazioni, avendo lui mi pare 29 anni) immolata al liberismo. Fra i giovani non ci sono comunisti, diceva, e il finanziamento pubblico ai quotidiani non va bene.
Il segno di una generazione che si è allontanata, eppure partecipa a un’assemblea di un giornale comunista, e quest’assemblea non ha problemi ad includerlo. Il segno della difficoltà nella quale il senso del pubblico è stato scaraventato dall’occupazione partitica del settore pubblico, dall’uso strumentale di tali finanziamenti. Perché anche i loro criteri vanno comunque riscritti, perché non tutti siamo testimonianza autonoma di informazione sganciata dal potere del capitalismo editoriale.
Ed il suo discorso, sia nella negazione dell’esistenza di comunisti fra i giovani – che non è vera ma è certo presenza assai minoritaria – sia nell’equiparazione casta politica-soldi dello Stato (a poco serve indicare, e lo farò solo di passaggio, l’ideologia liberista, qualunquista e grillina di tale equiparazione), indica lo spazio, nella sua fisica presenza che è anche una percezione di appartenenza, di un lavoro da compiere assieme. Perché verso tali idee, prevalenti in fasce diffuse,  noi dobbiamo portare un nuovo senso della cultura, della cittadinanza, una riscoperta del senso pubblico della politica e del comunismo. Che vanno comunicati per ricostruire, ma con innovazione reale, un’appartenenza.
Io credo che tale senso non possa che passare anche attraverso il grande e importantissimo, benché inflazionato e spesso generico sino all’ambiguità, tema dei beni comuni.
Diversi compagni hanno giustamente indicato l’uso coprente di un termine che può condurre alla famosa notte nella quale tutti i gatti sono bigi. ‘Anche il microfono che ci stiamo passando’, si è detto, ‘rischia di essere un bene comune’.
A parte il fatto che il rischio è stato fortunatamente corso, nel senso che la comunicazione allargata e democratica è stata rischiosamente praticata sino a far diventare bene comune e non privatistico lo strumento di circolazione fisica dei nostri pensieri, io non vorrei che su un tema così importante – nel momento nel quale si crea, ed è ovvio per tante ragioni, confusione – si creasse una sorta di retorica dell’antiretorica.
Credo che la tematica dei beni comuni debba essere sviluppata a sinistra  e che serva anche a ridefinire, attraverso una rilettura delle forme di soggettività politica nella pratica della democrazia, la stessa nozione di comunismo, ricostruendo teoria e prassi per i nostri tempi e quelli futuri.
Perciò il legame fra un quotidiano che voglia mantenere questo segno e questa stimmata nella sua testata, e  il comunismo, non può non contenere tale tema. Partendo dal fatto altrimenti inesplicabile che sui beni comuni, attraverso i referendum sull’acqua e sul nucleare (cioè su energia e ambiente), si sia registrata una vittoria impensabile per qualità e proporzioni.
E’ uno degli strumenti della lotta al capitalismo del terzo millennio, forse lo strumento più potente. Non dobbiamo temere la confusione o l’inflazione del termine, ma lavorare per approfondirne i termini. E’  uno dei compiti direi molto adatti a ‘il manifesto’ (e anche al ‘manifesto sardo’).

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