E lucevan le stelle

1 Febbraio 2011

piasentà

Valeria Piasentà

Notti padane. «Tira le pietre, non la cinghia!». Non so quando sia comparsa questa scritta sui muri di Torino, ma da poco, quindi: o sono stati gli universitari in lotta da settembre contro il ddl Gelmini, secondo una tradizione di partecipazione civile che poche altre città possono vantare, o gli operai della FIAT. Qui non ci sono stelle, ne’ a cinque ne’ a sei ne’ a otto punte, solo fantasia e indignazione nel contesto di una frase diretta quanto sintetica ed efficace. Occorre stare molto attenti a quel che si scrive perché i nuovi padroni stanno risimbolizzando gli strumenti della comunicazione secondo precise strategie di marketing politico, e dopo aver privatizzato lo Stato cercheranno di impossessarsi delle nostre menti. Così quando compare una stella (una qualsiasi stella) vicino a una scritta il fatto finisce in prima pagina e allarma nelle aperture dei tg, con Torino+operai+stella=BR e la paura come strumento di propaganda politica. Nel recente caso torinese la stella era associata al nome Marchionne, traete voi le conclusioni (si scoprì poi che le BR non c’entravano nulla, era prevedibile). Tuttavia la stella è un simbolo universale fra i più alti e puri, con la sua luce squillante squarcia le tenebre e regala la conoscenza; secondo Marsilio Ficino l’armonia delle sfere celesti ci ha dato il tempo col ciclo delle stagioni, il numero e la musica. Ha accompagnato tutta la vita dell’uomo sulla terra e stelle stanno pure negli arcani maggiori a illuminare la prima donna mentre nuda versa acqua, all’origine della vita; come illumina nella finzione scenica il corpo della Tosca pucciniana suicida per amore e per la libertà, emblema di  una donna che non si prostituisce neppure per aver salva la vita. Singola è la Stella Polare mentre indica la strada al navigante, all’uomo-Ulisse che ha la sua stella come viatico. Falce e martello individuano i lavori contadino e operaio già nei fregi delle corporazioni romane e medievali, sono ripresi dai socialisti fra fine Otto e primo Novecento e la stella di Marx ed Engels venne aggiunta solo dopo la Rivoluzione d’Ottobre. La rossa stella dell’ideale, una stella pentagonale a cinque punte generata dalla sezione aurea – la ‘divina proporzione’ -e inscrivibile idealmente nel cerchio che rappresenta il dio per la sua perfezione, l’equidistanza di ogni punto che lo descrive dal centro e l’infinita continuità, dopo la III Internazionale diventò simbolo di socialismo e comunismo. Era molto amata da Majakovskij che vi vedeva la terza componente rivoluzionaria, quella degli intellettuali, degli artisti. Ma qualsiasi cosa rappresenti con la sua luce divina, oggi la stella è sospetta quindi bandita dalla nostra comunicazione politica. In questi mesi la città assiste, un po’ basita, allo spettacolo di una politica che la usa come campo di sperimentazione della ‘nuova ideologia’ che vede destra e sinistra sulla stessa barricata, quella alzata dal Padrone (con la P maiuscola perché a Torino, nell’immaginario collettivo, il padrone è uno solo). La città rappresenta un punto di riferimento anche per Veltroni, dal Lingotto dice: «Nella mia vita politica, ogni volta che ho dovuto fare delle cose di rilievo, ho scelto Torino » e ora la ritiene città ideale per rilanciare il Pd. Ma quale Pd? quello di Veltroni come di Fassino, candidato sindaco, e del sindaco uscente Chiamparino, tutti sostenitori della politica di Marchionne? Un Pd confuso che ha già abbandonato alla Lega una fetta del suo elettorato storico, la classe operaia. Ancora Veltroni «con la vicenda Fiat-Mirafiori, Torino è stata il crocevia di una sfida di cambiamento e innovazione» e se sull’uso del termine cambiamento possiamo essere d’accordo, lo siamo meno su quello di innovazione. Perché il contratto imposto non ha nulla di nuovo, ha semmai odore d’antico, è una involuzione rispetto alle conquiste dei diritti umani e sociali che hanno segnato le lotte operaie del Novecento, compreso il diritto di sciopero. In questo caso il termine innovazione andrebbe sostituito con involuzione. Lo stesso vale per la parola rivoluzione, spesso usata a sproposito «XY: il pannolino rivoluzionario!» diventa ridicola in bocca ai leghisti «Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e dei zingari» (Gentilini). Esistono altri termini più congrui che consigliamo di utilizzare, per esempio restaurazione. Ecco come ci vengono sottratte le parole – strumenti di analisi per la costruzione del pensiero critico -usandole in maniera impropria, ribaltandone il senso per confondere come nel gioco truffaldino delle tre carte. Un termine abusato e snaturato diventa frusto e si satura, se rappresenta sé e il suo contrario finisce per non significare più nulla. Ricordiamo tutti una bella lezione tenuta qualche anno fa da Diliberto intorno al termine riforma, col tempo e l’abuso la parola si è logorata e fusa con il suo contrario: controriforma. Ora non significa più nulla, se tutti si dicono fautori di riforme nessuno lo è. Un esempio, da contestualizzare nella nostra forma di Stato democratico: se con riforma si indica una stretta economica e normativa all’università pubblica per favorire le istituzioni private, che seguono quindi interessi finanziari e ideologici (di pochi) prima che culturali e didattici (dei molti), possiamo supporre che non apporti quelle innovazioni utili al miglioramento della situazione in atto? invece favorisca un ritorno a strutture precedenti o quantomeno rappresenti il congegno per creare uno sbarramento all’accesso alla conoscenza e all’istruzione di qualità da parte di più ampi strati di popolazione? e conseguentemente possa essere definita non riforma ma controriforma? «Io distruggo i cassetti del cervello e quelli dell’ organizzazione sociale: demolizzare ovunque e gettare la mano dal cielo nell’ inferno, gli occhi dall’ inferno nel cielo, ristabilire la ruota feconda di un circo universale nelle potenze reali e nella fantasia individuale» scriveva il poeta dadaista e marxista Tristan Tzara, agli inizi del Novecento. Perciò ringraziamo chi ha scritto sui muri di Torino una frase che se ironicamente incita alla rivolta soprattutto ci fa pensare quanto dobbiamo reimparare a tirare le pietre, ricordandoci a un tempo che «le parole sono pietre» (Carlo Levi).

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