Nuove domande, vecchi poteri

1 Luglio 2011

Marco Ligas

Capita, ed è paradossale che avvenga, che dopo lotte importanti tese a rafforzare gli strumenti di democrazia e di partecipazione dal basso, dirigenti delle istituzioni statuali politiche o sindacali, assumano decisioni che vanno in tutt’altra direzione rispetto a quelle indicate dai cittadini nel corso delle loro rivendicazioni.
La più recente riguarda l’accordo (l’avviso comune) tra le imprese e i sindacati (ecco qua il testo) su alcuni principi relativi ai rapporti di lavoro. Le notizie di questi giorni danno per conclusa la trattativa tra i sindacati confederali, CGIL compresa, e la Confindustria. Uno dei punti dell’intesa riguarda la rappresentanza dei lavoratori all’interno della fabbrica. Si passa dalle Rsu (rappresentanze sindacali unitarie) elette a scrutinio segreto dai lavoratori alle Rsa (rappresentanze sindacali aziendali) nominate dai sindacati anche senza consultazione con i propri iscritti (insomma nessun diritto di voto). In questo modo i lavoratori verrebbero privati del diritto di decisione su tutte le questioni riguardanti le loro condizioni, dal salario all’orario, dai turni alle pause (vedi il commento di Marco Barbieri).
Susanna Camusso ha fatto una scelta grave, irrispettosa soprattutto nei confronti di quei lavoratori che nel corso dei mesi precedenti hanno avuto il coraggio e la determinazione di respingere i ricatti e l’arroganza della Fiat e del suo amministratore delegato.
E’ comunque un segnale negativo che si riparli di queste cose, che l’interesse delle forze sindacali sia indirizzato su questioni che rappresentano un arretramento del dibattito politico, quando al contrario si dovrebbero affrontare, e in termini propositivi, i temi dell’organizzazione del lavoro a partire dai diritti conquistati. La riproposizione delle Rsa fa pensare invece che si voglia trasferire anche a livello sindacale il modello di rappresentanza esistente a livello politico, consolidatasi in questi anni attraverso la legge elettorale definita porcata dallo stesso promotore.

Intanto partiti e governo discutono, in queste settimane con maggiore insistenza, della crisi economica, anche perché incalzati dalle istituzioni europee. Molti si dimenticano che nel corso degli ultimi decenni c’è stato un passaggio di circa il 10% dai salari ai profitti. Cioè una buona parte della popolazione del paese si è impoverita. Ciò nonostante si presenta la nuova manovra sul fisco, che si preannuncia con i soliti criteri iniqui, come un toccasana, capace non solo di rimettere in sesto un’economia agonizzante ma di riequilibrare anche le disparità esistenti nel sistema delle tasse. E si  fa un gran parlare dell’applicazione di tre aliquote che dovrebbero sostituire quelle attuali. Ma il modello 20-30-40 ipotizzato dal governo non solo rimane ancora sul vago, ma non precisa le modalità dei nuovi accorpamenti (chi rientra  e chi no nelle nuove aliquote) e lascia già intravedere un’ulteriore stangata contro i redditi medio bassi.
Insomma è una costante per i nostri governanti, quando dichiarano di rimettere in sesto l’economia, presentare subito e soltanto provvedimenti fatti di tagli e riduzioni di spesa. Spostare il peso delle imposizioni fiscali dai redditi bassi a quelli alti sembra un’eresia, così come tassare i grandi patrimoni: eppure su questi basterebbero modesti incrementi di tassazione per ricavare cifre ragguardevoli. La stessa lotta all’evasione rimane un tabù.
C’è una voce relativa ai tagli della spesa che viene sempre esclusa: riguarda i costi della politica. I vitalizi ai parlamentari e ai consiglieri regionali e le loro stesse retribuzioni risultano intoccabili, sfuggono a qualsiasi esigenza di contenimento della spesa. E’ probabile che nel complesso non raggiungano cifre ragguardevoli; una loro riduzione però risulterebbe esemplare e legittimerebbe iniziative analoghe da estendere in altri settori del comparto pubblico. Ma su queste ipotesi il governo non intende misurarsi

Un discorso a parte meritano i temi della tutela dell’ambiente e le opinioni che hanno i cittadini su queste materie. Siamo reduci dai referendum sul nucleare e sull’acqua. I risultati sono stati chiari: hanno detto, tra le altre cose, che devono essere i cittadini a decidere sull’organizzazione dei territori. Ma per i poteri forti del nostro paese non è così. Quali sono, in questa circostanza, i poteri forti? Ancora una volta i soliti noti: la Confindustria che si batte strenuamente perché l’opera di devastazione in Val di Susa vada avanti, il Governo, le Banche e la Finanza internazionale, ma anche il Parlamento e qualche partito dell’opposizione.
Il Pd marcia sicuro di sé, sostiene che la costruzione della linea Torino-Lione è una scelta importante, farà crescere il Pil e il paese (chi?) diventerà più ricco. E poi ci sono anche i contributi dell’Unione Europea, vogliamo perderli? Viene spontanea una domanda: perché non riprendiamo il discorso del ponte sullo stretto di Messina? Averlo accantonato sembra una discriminazione, ancora una volta ai danni del Mezzogiorno!

Ecco, sono bastate poche settimane perché la politica, quella vecchia messa in discussione e in crisi dalle elezioni amministrative e dai referendum, ripercorresse i vecchi itinerari. Vediamo una sola possibilità perché venga sconfitta definitivamente: continuare con lo stesso impegno e la stessa determinazione con cui nei mesi scorsi gli studenti, i precari, i lavoratori hanno reagito alle prepotenze di un governo sempre più screditato e alla inadeguatezza di un’opposizione che non riesce o non vuole assumere la domanda di cambiamento che sale dal paese.
Non ci sono altre alternative.

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