Tempo di sinistra? Dibattito

16 Novembre 2011

manifesto sardo

C’è il rischio concreto che il varco spalancato da Berlusconi e Tremonti al capitalismo finanziario internazionale compia ancora un massacro sociale ed economico del nostro paese, questa volta con la complicità di una coalizione sempre subordinata alle scelte neoliberiste.
Le formazioni della sinistra possono opporsi al disegno del capitalismo, con proposte alternative e pratiche di unità? Ci siamo rivolti alla nostra rete e ai compagni che vogliono contribuire a questa alternativa: inviateci i vostri interventi. I temi fondamentali, classici ma non certo superati, sono il lavoro, la precarietà, la questione femminile, la cultura, l’ambiente, i beni comuni, la pace.
Vorremo suggerire – se possibile e certamente senza rinunciare alla critica severa – di abbandonare gli scenari insostenibili dei reciproci anatemi e antipatie spesso presenti nei vertici dei vari gruppi dirigenti: interveniamo preferibilmente segnalando punti qualificanti di un programma, di obiettivi possibili per la costruzione di unità a sinistra. Gli interventi – che vi invitiamo a contenere entro le 5000 battute circa, spazi compresi, saranno progressivamente aggiunti e indicizzati. Inviare a: [email protected] oppure [email protected] (Red.)

Alessandro Tedde Riaprire la partita
Igino Panzino Arte da sistemare.
Cinzia Serra Appello 22 ottobre.
Pietrina Chessa Che fine ha fatto la ‘Carta di Sassari’?.

Riaprire la partita

Alessandro Tedde

I sindacati confederali, promotori dello sciopero dell’11, hanno colto in pieno il sentimento d’indignazione dei cittadini, dopo gli attacchi del Governo Berlusconi e della Giunta Cappellacci, realizzando uno straordinario risultato.
Intanto il commissariamento da parte della BCE, evocato nella recente lettera, assume le forme dello spettro dell’ipotesi di governo “lacrime e sangue” di Monti, che preannuncia un nuovo giro di vite su lavoro, pensioni e stato sociale: una risposta sbagliata che scarica il peso della crisi su chi nulla ha guadagnato dall’ubriacatura finanziaria.
In questa difficile fase, la piazza cagliaritana lancia un grido che rischia di rimanere inascoltato, orfana com’è di una rappresentanza politica. Negli interventi, all’espressione dell’indignazione si è aggiunta la preoccupazione per l’assenza di interlocutori nelle istituzioni. La sinistra, fuori dal Parlamento e indebolita localmente, è costretta ad un ruolo di spettatrice del teatrino di queste ore proprio perché, da tempo, ha abdicato al suo ruolo di rappresentanza politica dei lavoratori, da cui ha avuto origine la sinistra socialista e comunista che nella storia repubblicana è stata il motore di grandi conquiste sociali e democratiche.
La classe dei lavoratori è per noi ancora quella classe generale che, liberando se stessa, può liberare gli altri ed in quest’ottica va letto il generale arretramento della società italiana, in cui il movimento dei lavoratori, costretto in una fase difensiva, patisce la mancanza, ormai ventennale, di una forza di massa che si assuma il compito di rappresentarne le istanze.
Il Movimento per il Partito del Lavoro, con la Federazione della Sinistra, considera appunto la centralità del lavoro e la sua rappresentanza quale snodo centrale del confronto con tutte le forze, politiche e sociali, che si pongono il tema dell’alternativa di società.
Il metodo con cui sviluppare questa dibattito dev’essere parte della riflessione, che non può non tener conto dell’attenzione sollevata dal fenomeno delle primarie. Poter scegliere il candidato della coalizione è considerata una conquista da molti cittadini. Questo, in generale, è vero: ogni occasione in cui si è chiamati a votare aggiunge un tassello alla creazione di una democrazia compiuta. Ma è meglio non lasciarsi andare a facili entusiasmi. Erano forse poco avveduti i padri costituenti che fissarono il diritto dei cittadini “a concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale attraverso la libera adesione ai partiti” e non mediante l’uso delle primarie? Oppure una lotta ventennale contro il fascismo aveva mostrato i rischi dell’assimilazione dell’idea dell’”uomo solo al comando”? L’art.49 Cost. sancisce l’inscindibilità tra principio democratico nelle istituzioni e nel dibattito interno dei partiti. Ed anche su questo si è fondato il NO della FDS alla sostituzione del porcellum di più liste, seppur bloccate, con il mattarellum proposto dai referendari, che pone la scelta tra due soli candidati.
E’ difficile cogliere la coerenza tra la difesa delle primarie ed il sostegno a sistemi elettorali restrittivi della scelta dell’elettore. Rifuggiamo dall’abusare delle primarie senza un’adeguata riforma del sistema dei partiti: il rapporto diretto tra popolo e leader, nuovo messia, è la base su cui si sono edificate molte democrazie plebiscitarie, regimi celati sotto una maschera di legalità. Non è su questo rapporto che si può ricostruire una sinistra di massa per questo Paese. Le primarie sono uno strumento che può agevolare, come ostacolare la reale partecipazione politica dei cittadini, se non precedute da un confronto aperto sulle proposte concrete e sugli impegni da far sottoscrivere ai candidati. Una risposta forte al disimpegno e all’antipolitica passa piuttosto per il rafforzamento della Politica con la P maiuscola, che mette al centro la vita delle persone, i loro problemi quotidiani, senza passare per l’estremizzazione plebiscitaria dello strumento della delega.
Il binomio lavoro-democrazia può essere il perimetro entro cui innestare una discussione franca della sinistra che anticipi, nel tempo e nei contenuti, le scadenze elettorali, ridando alle istituzioni rappresentative il ruolo di mezzo per l’azione politica e non di fine della stessa.
Questo significa accantonare i temi proposti dal Manifesto Sardo? Io penso di no. La scelta di lavoro e democrazia come valori fondanti è scelta di metodo, oltre che di merito. Il lavoro definisce il campo degli interlocutori della sinistra secondo la classica dicotomia marxiana. La democrazia vera, partecipata e partecipativa, definisce le forme della discussione sul merito delle questioni evidenziate e su molte altre ancora. Riconoscersi come simili ed avere un linguaggio comune sono i presupposti per giungere ad un risultato sentito come condiviso, seppur diverso dalle posizioni d’origine.
Il Movimento per il Partito del Lavoro è pronto e non attende che il fischio d’inizio per “riaprire la partita”.

Appello 22 ottobre

Cinzia Serra

La storia ci impone di intervenire, principalmente sulle delle dinamiche del lavoro, mai attaccato come ora. Rischiamo di trovarci catapultati nell’Ottocento quando l’uomo senza diritti era un mero schiavo del capitale. Questa crisi peraltro strutturale apre scenari terribili a cui bisogna necessariamente porre un argine. Un argine forte che non venga spazzato dalle numerose tempeste che s’abbattono su di noi proletari. La FIOM sta facendo un buon lavoro, ma solo non può farcela soprattutto per l’ostruzionismo interno della Camusso. L’accordo del 28 giugno è scellerato, vile. Apre le porte all’annullamento del contratto nazionale, di quelle garanzie che sono state conquistate col sangue di uomini e donne che hanno conosciuto lo sfruttamento sulla loro pelle, che ne hanno portato le cicatrici nel cuore fino alla morte.

Con alcuni/e compagni/e si è levata una gracile voce. Una voce che, memore della storia recente e fiera dell’ideologia a cui fa riferimento, non vorrebbe il classico inciucio elettorale, ma vorrebbe l’unità dei soli partiti comunisti. I motivi sono semplici: la sinistra non deve più trovarsi nella condizione di votare missioni di guerra o la tav. Non deve più trovarsi nella condizione di mediare sulla possibile modifica dello statuto dei lavoratori. sulla privatizzazione dei servizi pubblici, come caldeggiano Trichet e Draghi nella ormai nota lettera. sull’affamamento del proletariato attraverso manovre inique che allargano la forbice della sperequazione sociale. Vi chiediamo solo di pubblicare il nostro documento. di farcelo uscire sul vostro sito come semplice spunto di dibattito. Di darci voce, com’è nella tradizione de ‘Il manifesto’ nella speranza che sia solo l’inizio e che tante altre voci si levino, portando fuori contraddizioni e possibili vie percorribili.

Qua il testo dell’appello.

Arte da sistemare

Igino Panzino

Il limite più evidente dell’attuale sistema dell’arte è rappresentato dall’eccessiva promiscuità vigente nei rapporti tra il mercato privato e la rete pubblica di musei e gallerie d’arte contemporanea. Non esiste, infatti, una differenza apprezzabile tra le diverse funzioni e le alternative politiche culturali che queste due parti dovrebbero esprimere ai fini di un confronto più virtuoso.

L’attuale condizione della ricerca artistica è del tutto simile a quella della ricerca scientifica: da una parte la ricerca pura che sopravvive grazie ai finanziamenti, sempre più ridotti, destinati all’Università e dall’altra una ricerca applicata che invece riceve un ben più solido sostegno dal sistema aziendale privato che opera nei più diversi settori.
Inutile ricordare che senza la ricerca di base non potrebbe esistere quella applicata, cioè senza i ricercatori che, per esempio, inventano un nuovo materiale non esisterebbero i tecnici che ne trovino un utilizzo pratico. Stessa cosa succede nel mondo dell’arte dove lavora una categoria di artisti che, secondo criteri di ricerca di base, si dedica, per dirne una, allo studio del linguaggio visivo raggiungendo risultati formali e culturali di qualità.

Va detto che, al di là dei suoi meriti, il carattere fortemente specialistico di tale occupazione, ne pregiudica, purtroppo, l’apprezzamento da parte del grande pubblico. I prodotti di questa ricerca vengono però riconosciuti ed utilizzati da un’altra categoria di artisti che, secondo una prassi consolidata in secoli di storia dell’arte, riesce, legittimamente, a trasformarli in merci come la moda o il design, adattandoli comunque alle esigenze del mercato, e ottenendo in questo modo gratificazioni economiche e mediatiche ben più consistenti di quelle raggiunte dai ricercatori puri.

Quelli appartenenti alla prima categoria si possono perciò considerare degli artisti che, invece di rivolgersi direttamente al pubblico ed al mercato, preferiscono svolgere un lavoro di nicchia dal quale chiunque è libero di attingere, e che, così facendo, restano collocati ai margini del sistema dell’arte.
Per queste ragioni credo che il sistema pubblico dovrebbe differenziare il proprio compito sostenendo quella ricerca di base che, ignorata dal mercato, si muove in condizioni di precariato permanente, lasciando al privato la libera possibilità di muoversi per i suoi affari. Non credo che queste diverse funzioni debbano considerarsi necessariamente conflittuali, si tratta semplicemente di applicare, anche al sistema dell’arte, una forma di bilanciamento dei poteri che assicuri quell’equilibrio che dà carattere e forza alla democrazia.
Una chiara diversificazione dei compiti può essere utile anche per ricostruire le giuste differenze tra cultura e manifestazioni massmediologiche popolari, riconoscendo ad ognuno la propria dignità, e quindi a rivitalizzare l’immagine dell’arte riscattandola dallo stato di confusione tra business, moda, pubblicità e quant’altro ancora, in cui versa.
C’è un però: gli amministratori pubblici, soprattutto locali, che tramite la selezione dei finanziamenti determinano l’indirizzo della politica culturale, ragionano, purtroppo, anche se comprensibilmente, in termini di consenso popolare e di ritorno di immagine, non certo in termini scientifici.
Prevale perciò l’orientamento a destinare le sempre più esigue risorse a quel genere di manifestazioni, più apprezzate anche dagli operatori privati, definite “grandi eventi” ( vedi la mostra sulla Sagrada Familia di Gaudì tenuta a Cagliari, ad Alghero ed ora in corso ad Orani), spesso povere di contenuti culturali ma dotate di aspetti banalmente spettacolari capaci, almeno secondo gli organizzatori, di attrarre il grande pubblico.
Per inseguire questo consenso diventano protagonisti, secondo una logica del tutto paradossale, quegli autori “grandi firme” che non avrebbero nessuna necessità di un sostegno pubblico essendo già avvantaggiati dalle attenzioni loro offerte dal mercato.

Cioè si offre allo “star system” la possibilità di un ulteriore consolidamento a discapito degli artisti ricercatori appartenenti alla categoria meno fortunata. Prende vita in questo modo una commistione di interessi tra pubblico e privato dove alla fine è quest’ultimo a dettare gli indirizzi economico-culturali che le strutture museali pubbliche sono costrette a seguire.

Questa rincorsa dei grandi numeri, del resto, ha un po’ del ridicolo, se pensiamo che la Biennale di Venezia, manifestazione tra le massime rivolta ad un bacino di utenza internazionale, nel migliore dei casi non riesce a raggiungere il milione di visitatori; cifra del tutto risibile nel mondo della comunicazione globale: qualunque programma televisivo dovesse fermarsi ad un numero di spettatori simile verrebbe immediatamente soppresso. Da qui la necessità di sottrarre la gestione degli spazi pubblici ai politici, che come abbiamo visto hanno, per loro natura, interessi diversi da quelli scientifici.

Tali strutture vanno affidate per concorso a figure dotate di competenze specifiche, che esercitando la loro autonomia non seguano inutili competizioni sui numeri ma bensì precisi interessi culturali di settore. Questo se si vuole impedire che interi territori del nostro paese siano sacrificati al mero ruolo di consumatori acritici di prodotti culturali preconfezionati, che, troppo spesso, risultano più utili ai fini di un incremento autoreferenziale del sistema, che non agli utenti; nonché evitare che si mortifichi la capacità di produrre in proprio un’attività artistica, forse meno clamorosa e magari più economica, ma più attenta alle necessità delle realtà specifiche.
L’incongruenza sta nel fatto che il nostro governo nazionale e, per simpatia anche quello regionale, propone una politica culturale che sembra fondata sul vecchio luogo comune che recita: “Quando l’arte è vera arte la capiscono tutti”; ovvero: l’unica arte è quella che viene apprezzata da un pubblico e da un mercato che la sostiene e perciò non necessita di alcuna assistenza da parte delle amministrazioni pubbliche.
Quindi, a meno che non si vogliano impiegare le varie forme dell’arte come intrattenimento turistico o supporto propagandistico al servizio di altri più generali ed “importanti” contesti, giù ancora tagli. Il resto, cioè tutto ciò che non porta utili, è da considerarsi un’oziosa speculazione intellettualoide (compreso Dante con la cui opera non si può neanche imbottire un panino, come dichiarato dal ministro Tremonti.
Per cui non solo non si riconosce nessun valore a quel lavoro che si limita a produrre conoscenza e non crea reddito, ma si mette sempre più in dubbio la necessità strategica del sostegno alla cultura, all’arte e allo spettacolo nella loro autonoma essenza, mettendo a rischio anche lo stesso politicamente più redditizio genere “grande evento” sopra descritto.
Che sia il mercato a farsi carico della sopravvivenza della cultura e dell’arte.

Che fine ha fatto la ‘Carta di Sassari’?

Pietrina Chessa

Intervengo volentieri nel dibattito a sinistra e in particolare sui temi suscitati negli ultimi mesi sul manifesto sardo da Piero Careddu, e raccolti in questo numero da Marcello Madau. Penso che si tratti uno degli ambiti nei quali costruire azioni ‘a sinistra’. Voglio ricordare un avvenimento che ha visto a Sassari ( sembra passato un secolo ) una tre giorni ( 18-20 settembre 2008) a termine del quale è stata redatta una “Carta di Sassari” e che venne organizzato in vista del G8 che si sarebbe dovuto tenere a La Maddalena,nel 2009. Tre giorni di incontri per scambiare conoscenze, esperienze e testimonianze organizzati dalla facoltà di Agraria dell’Università di Sassari, in collaborazione con la Regione Toscana. All’evento avevano partecipato numerosi studiosi, ed era stato seguito da un folto pubblico formato in gran parte da associazioni, studenti e comuni cittadini, semplicemente preoccupati del futuro del pianeta e delle sue risorse, la cui crisi giunta ormai fin sulla porta della nostra casa fecero rilasciare importanti dichiarazioni al presidente Renato Soru, che incassava applausi dichiarando in apertura, dopo i saluti di rito, che acqua, semi, paesaggio, ambiente e biodiversità non possono essere lasciati al mercato.
Tra le ospiti più gradite ( almeno a me ) Vandana Shiva che affermava, tra l’altro, che la “rivoluzione verde” voluta e propagandata dagli Americani con Monsanto, Aventis, Novartis e il W.T.O., è stata chiamata ‘verde’ perché questo colore avrebbe dovuto contrastare tutto quello che è “rosso” e cioè fatto dai Cinesi. La rivoluzione verde ha creato estremismi: in India, nel Punjab, la situazione è divenuta insostenibile per i contadini che si suicidano a causa dei debiti, tanto da chiamare ormai quella zona “cintura dei suicidi”. Ai contadini vengono prestati i capitali importati dall’esterno attraverso il Governo locale. Quando i contadini non possono più pagare, il Governo locale si rivale su di essi perché condizionato dai capitali esteri. Ai contadini non rimane nient’altro che la disperazione e il suicidio per i debiti, bevendo i pesticidi. Richiamava poi il passato coloniale degli Indiani e la battaglia di Gandhi per il diritto al sale, ponendo con forza la necessità di fare altrettanto ora per il cibo e i semi, che le multinazionali vogliono brevettare per mantenerne il diritto esclusivo di sfruttamento attraverso le royalties. Un esempio pratico ?, gli Americani, che non perdono il vizietto, in Iraq hanno vietato ai contadini con un decreto (emanato da Paul Bremer in vigore dal 2004), di mettere da parte una quota del raccolto da usare come semente per l’anno successivo, dichiarando questa pratica illegale, benché usata dall’uomo per millenni e ancora adottata dal 97% dei coltivatori iracheni. I contadini dell’Iraq dovranno munirsi di licenza annuale per usare semi OGM made in USA, ovviamente dietro pagamento e, come per caso, il primo e principale fornitore autorizzato è Monsanto. La crisi alimentare, ripeteva Vandana Shiva, è strutturale e dobbiamo ricordarci sempre che tutto è interconnesso: la crisi di Lehman Brothers( era appena iniziato lo tsunami finanziario che poi sprigionò gli effetti devastanti che conosciamo) riguarda anche gli investimenti nel cibo, che deve essere prodotto per essere mangiato e non trattato come se fosse una merce qualsiasi. Nessuna soluzione alternativa può essere offerta dai biocarburanti, che sottraggono terreno alla coltivazione per produrre cibo e riducono i diritti umani, perché saremo costretti a mangiare quello che avanza al consumo delle macchine ( vedi l’illusione della chimica verde a sostituzione del petrolchimico di P,. Torres e prevede piantagioni di cardo nella Nurra ).. L’imperativo è contrastare l’agricoltura industriale che contribuisce all’emissione di gas serra, così come l’allevamento intensivo. Quando parliamo di sicurezza alimentare non possiamo tralasciare le conseguenze create dall’impatto sull’ambiente circostante..Per finire, al termine del dibattito, il prof. Sandro Pignatti, dell’Accademia dei Lincei, d aveva proposto la creazione di un “gruppo di Sassari” formato principalmente da giovani, per portare avanti il progetto della “Carta di Sassari”, proposta ritenuta subito “eccellente” da Vandana Shiva, prontamente raccolta dal prof. Luciano che offriva da subito la disponibilità della Facoltà.

1 Commento a “Tempo di sinistra? Dibattito”

  1. Red scrive:

    Un nuovo intervento, di Pietrina Chessa, dopo quelli di Alessandro Tedde, Cinzia Serra, Igino Panzino.

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