Produrre cinema e produrre lavoro

15 Febbraio 2011

Antonello Zanda

Produrre cinema e produrre lavoro. Di questi tempi, ritmati dalle forbici del governo che taglia l’immangiabile, parlare e scrivere di cinema sembra invitare all’intrattenimento. E di tutto abbiamo bisogno oggi piuttosto che di intrattenimento. Abbiamo semmai bisogno di approfondimento, di capire, conoscere, decidere, progettare. Intrattenere è un’attività superflua, che può anche avere un senso dentro il ritmo della quotidianità, ma non è il senso della nostra esistenza. Giustamente. Sappiamo peraltro che l’intrattenimento è l’orizzonte culturale di un certo modo di fare spettacolo. Colpire l’occhio, lo stomaco e le viscere dello spettatore per in/trattenerlo, cioè tenerlo sospeso nel suo essere leggero, evanescente, etereo ed effimero. La televisione è maestra di questa tecnica ipnotica. Ma il cinema non c’entra niente. O meglio chi fa cinema, chi produce e realizza film presuppone l’intelligenza dello spettatore, la sua capacità di uscire da quello stato di torpore intellettuale che lo anestetizza contro ogni azione che lo depriva, che gli sottrae diritti, che lo annichilisce a tabula rasa. C’è chi decide per lui e scrive sulla pagina dei suoi occhi quello che deve vedere e pensare. La tecnica magistrale del Grande Fratello è qualcosa di più di quel povero contenitore di involucri umani che si agitano agitate da  un manovratore. Manovratore che non ha carne e non ha ossa, ma è un sistema culturale, un progetto educativo, un orizzonte storico, politico ed economico. La cultura berlusconiana ha preparato il terreno per coltivare generazioni di larve. “L’invasione degli ultracorpi” di Don Siegel, film che rappresentava il terrore americano del comunismo, oggi rappresenta questa corrosione interna del nostro vivere civile, ne incancrenisce i sentimenti, ne spegne l’immaginario riducendolo a lumicino di individualità. Chi fa cinema intelligente chiama alla visione un pubblico intelligente, che cura la propria curiosità, la voglia di sapere, la tensione conoscitiva, lo sguardo che osserva e scopre l’anima della realtà, la proiezione verso la condivisione e la convivenza civile. Nella nostra isola c’è chi produce cinema mostrando ed evidenziando la complessa articolazione del lavoro nella nostra società e quindi sottolineandone la centralità. Si può guardare anche a un aspetto marginale del tema, ad un’attività piccola, periferica, ma lo si può fare illuminando la scena di tutti. Guardando a 360 gradi sul mondo del lavoro nella nostra isola è facile ritrovare la natura puntiforme dell’osservazione che non perde mai di vista, quasi naturalmente, una visione complessiva della nostra realtà. Come se la cornice geografica dell’isola inducesse automaticamente sguardi parziali e allo stesso tempo totali dell’unicità. I film degli autori sardi, o meglio degli autori che filmano e tematizzano il mondo del lavoro in Sardegna, avvertono e restituiscono questa dimensione del lavoro. E la restituzione può essere sintetizzata nel fatto che lo sguardo del cineasta sul corpo individuale del lavoro è costantemente visualizzata sulla dimensione collettiva e comunitaria. A cominciare dai film del classico dei classici degli autori che hanno documentato i nodi (e quindi anche i risvolti nascosti dietro i proclami) della rinascita in Sardegna, il regista sassarese Fiorenzo Serra, fino ai più recenti autori come – per citarne solo alcuni – Daniele Segre, Paolo Carboni, Daniele Atzeni. Nei loro filmati c’è la riproposizione dell’idea del lavoro che è lo scheletro portante della costituzione e la tematizzazione che ci propongono i registi sottolinea, evidenzia, la distanza tra la parola e il fatto, tra il mondo immaginato da un’idea e il mondo delle cose reali in cui ci troviamo gettati. Il documentario sociale, che si esprime nella maggior parte dei lavori che raccontano la Sardegna e i suoi sforzi per emergere dallo stagno storico in cui si trova, fa emergere proprio la natura sociale e comunitaria della soggettività dei sardi. I registi ne sono interpreti e mediatori visuali. Questa idea di documentario, che è peraltro anche una idea di pubblico, cambia decisamente i rapporti di forza tra i due estremi della rappresentazione (per semplificare: l’immagine da una parte e la realtà dall’altra). Cambiare i rapporti di forza significa mettere in evidenza un rapporto di scambio reciproco, di continua osmosi di contenuti da una parte all’altra. Lo sguardo dell’osservatore è già elemento vivo dell’ambiente vivo che è osservato. Il regista sardo, o anche il regista sardo che si ritrova immerso dentro il sistema di relazioni sociali dell’isola, restituisce nel suo sguardo l’osservazione, l’atto del guardare come elemento di verità interno alla realtà osservata. Non c’è sipario verrebbe da dire, perché questo scambio osmotico lo ha già eliminato. Fiorenzo Serra per cominciare e dopo di lui la maggior parte dei buoni documentaristi hanno interpretato senza sovrastrutture ideologiche questo rapporto. Il realismo scolastico e prescolastico, ma anche il realismo storificante e storificato che risulta reificato negli ismi che hanno dominato il ventesimo secolo (ivi compreso il neorealismo) non hanno tenuto conto che nella nostra isola gli autori che hanno documentato l’isola vivono nell’immagine una prossimità tale tra osservatore-osservazione-osservato che la forma concreta del sentire comune (comunitario) un problema ne risulta contaminata fino a testimoniarne l’aderenza, la sovrapposizione, la congiuntura. Non è identità ma è forma presente e reale di una identità che è l’unica possibile, quella che tiene distinti la natura puntiforme dell’esperienza. È un’immagine (ancora logica) questa che dovrebbe essere ricordata e tenuta presente anche nella varie e più ampie tematizzazioni dell’identità linguistica, sociale, economica e via dicendo. La res non è più altro da noi di quanto lo sia la stessa immagine che abbiamo di noi stessi nel farsi della nostra identità soggettiva. I documentari sul lavoro che in questi ultimi anni vari autori e registi hanno realizzato nell’isola, proprio perché documentano la forma del lavoro che dà senso alla nostra identità soggettiva e comunitaria, restituiscono un progetto che è la vita dei sardi nella loro volontà di determinare e disegnare l’orizzonte del loro futuro. In questo senso chi produce cinema produce lavoro. Ed è questo lavoro culturale, questo progetto di identità forte, che i tagli dell’attuale governo vogliono disinnescare.

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