Riflessioni sul 25 aprile

16 Aprile 2009

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Claudio Natoli

La giornata del 25 aprile è stata celebrata con maggiore o minore enfasi, con maggiore o minore partecipazione nelle diverse fasi della storia dell’Italia repubblicana, ma oggi sembra assumere per tutti coloro che ancora si riconoscono nella nostra Costituzione un significato anche più attuale di ieri.
Da molte parti abbiamo sentito affermare negli ultimi anni che, di fronte alle radicali trasformazioni del mondo contemporaneo, i valori e i principi fondanti della Resistenza e della Costituzione sarebbero divenuti obsoleti e che solo il richiamarli alla memoria avrebbe come risultato di alimentare un clima di odio e di divisioni e di ostacolare una auspicata “pacificazione nazionale”, cosicché ci si è spinti nella fase più recente fino a richiedere l’abolizione della festa della Liberazione e la sua sostituzione con una pretesa “giornata della concordia”. Di che genere sia questa pacificazione possiamo apprenderlo dal fatto che in sedi anche molto autorevoli del ceto politico e di governo e nel sistema di comunicazione mediatica e audiovisiva non si perda occasione non solo per denigrare l’antifascismo e la Resistenza, ma anche per fornire nel contempo una visione grossolanamente edulcorata del passato fascista e di riabilitarne persino il suo lato più fosco, e cioè il collaborazionismo della cosiddetta repubblica di Salò. E’ nuovamente in discussione al Parlamento un progetto di legge che vorrebbe equiparare i fascisti combattenti di Salò ai partigiani e ai militari dello Stato italiano, ivi compresi i seicentomila militari catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e che scontarono il campo di concentramento proprio perché si rifiutarono di combattere in quei corpi armati di Salò che erano preposti alla guerra antipartigiana e agivano al servizio dell’occupante tedesco. Non è qui possibile entrare nel merito di questa campagna mediatica, che è stata rivolta all’opinione pubblica più vasta, al fine di formare una nuovo senso comune “anti-antifascista”: non si può tuttavia sottacere che essa si è nutrita di messaggi, di slogan e di contenuti direttamente tratti dall’armamentario polemico dell’Uomo Qualunque, del neofascismo, delle correnti del cattolicesimo integralista e autoritario e dell’anticomunismo dei primi anni Cinquanta , ma anche che a suo sostegno sono scese in campo per la prima volta forze molto potenti, dalle televisioni berlusconiane al servizio pubblico della RAI, e, non ultimo, che essa è stata largamente sostenuta anche da quotidiani che si professano liberali, come il “Corriere della sera”: e basterà qui accennare alla polemica sulla cosiddetta “morte della patria”, che ha avuto nell’organo di stampa più autorevole della borghesia italiana e nei suoi editorialisti ed opinionisti il principale soggetto promotore.
E’ appena il caso di aggiungere come tutto ciò suoni offesa non solo alla verità storica, ma al più elementare senso di giustizia e alla stessa identità democratica e civile del nostro paese e come il caso italiano costituisca oggi una assoluta anomalia nell’ambito dell’Europa occidentale. In questa area geografica e politica, infatti, gli uomini di governo dei più diversi orientamenti, penso al presidente Chirac, notoriamente non appartenente all’area della sinistra, proprio nella fase più recente hanno teso a rimarcare il valore della Resistenza come momento fondante dell’identità democratica del proprio paese e più in generale dell’Europa uscita dalla tragedia della seconda guerra mondiale e dalla disfatta del nazifascismo e hanno sempre rifiutato qualsiasi alleanza politica ed elettorale con la destra neofascista rappresentata dal Fronte nazionale di Le Pen. D’altra parte, anche in Spagna, dopo una prolungata fase di rimozione nella sfera pubblica della tragedia della guerra civile e del passato franchista, a cui peraltro si è meritoriamente sottratta la comunità degli storici, si è assistito negli ultimi anni a una piena assunzione di responsabilità da parte del governo e delle pubbliche istituzioni, che ha portato alla valorizzazione della resistenza repubblicana e alla decisione di eliminare i simboli celebrativi del regime di Franco. Nella Germania federale l’Historikerstreit ha evidenziato la vigile presenza della comunità degli storici nell’impedire ogni tentativo di azzeramento della coscienza critica del passato nazista come patrimonio dell’identità democratica del paese, sia prima che dopo la caduta del Muro di Berlino.
Non è inutile allora tornare a sottolineare come l’antifascismo e la Resistenza costituiscano una delle fasi della storia dell’Italia post-unitaria di cui il nostro paese possa andare incondizionatamente fiero e come il modello di democrazia e di convivenza civile codificato dalla nostra Costituzione meriti oggi non solo di essere difeso nei suoi presupposti fondamentali, ma debba anche in una notevole misura essere riconquistato.
Ed è altrettanto importante ricordare come la nostra Costituzione non sia nata dal nulla. Essa aveva alle spalle un processo estremamente complesso di elaborazione teorica e politica che si era svolto anzitutto nel vivo delle lotte antifasciste in Italia e in Europa nel periodo tra le due guerre, e in particolare nella seconda metà degli anni Trenta: è a questa fase che risale l’incontro tra i comunisti, i socialisti e Giustizia e Libertà sul terreno del carattere democratico della lotta antifascista, ma al tempo stesso sul terreno della ridefinizione dei soggetti e dei contenuti di una democrazia profondamente rinnovata, capace di recidere le radici politiche e sociali del fascismo e di superare nel contempo l’estraneità delle classi popolari al vecchio Stato liberale. In seguito, nel corso della Resistenza, la nuova cultura politica dei partiti della sinistra si incontrò con le correnti più avanzate del mondo cattolico, rimaste estranee all’antifascismo storico e con gli eredi del liberalismo prefascista, dando vita a un movimento unitario che conferì nuovamente dignità al popolo italiano come soggetto autonomo della propria liberazione e della conquista della democrazia. Le aspirazioni ad un mondo più libero e più giusto dei movimenti della Resistenza si contrapposero allora nell’intera Europa alla realtà di oppressione e di disumanizzazione impersonata dall’occupazione nazifascista e simboleggiata dall’orrore dei campi di concentramento e di sterminio. La nostra Costituzione costituì precisamente un tentativo di recepire queste istanze, prefigurando un nuovo modello di democrazia che rappresentava una rottura non solo con il regime fascista, ma anche, per molti aspetti, con lo Stato liberale prefascista.
Anzitutto va ricordata l’estensione, per la prima volta nella storia d’Italia, del suffragio elettorale alle donne, che ne erano state precedentemente escluse. E poi la nascita di una repubblica parlamentare non più segnata dai tratti autoritari del vecchio Stato monarchico costituzionale, bensì fondata sulla partecipazione attiva dei partiti di massa e della società civile, su un tessuto ramificato di autonomie locali e regionali e sul principio della separazione e del bilanciamento dei poteri tra governo a parlamento, sull’indipendenza della magistratura e su organi autonomi di garanzia, come il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. A ciò dobbiamo aggiungere un secondo aspetto fondamentale, e cioè la nuova dimensione dei diritti di cittadinanza. Al sostanziale allargamento delle libertà politiche e civili (con l’inclusione del diritto di associazione e del diritto di sciopero) si accompagna per la prima volta il riconoscimento dei diritti sociali come diritti inscindibili dai diritti politici: il diritto all’istruzione libera e gratuita, il diritto al lavoro, il diritto alla sanità, il diritto alle pensioni, il diritto ad una salario equo e conforme alla dignità della persona, sono sanciti costituzionalmente. Di più: i poteri pubblici sono tenuti ad operare attivamente per il superamento delle disuguaglianze sociali, che costituiscono un ostacolo all’espletamento dei diritti di libertà. L’esercizio della proprietà privata è garantito anch’esso costituzionalmente, purché non entri in contrasto con l’interesse generale, insieme con la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Infine, la Costituzione ripudia la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, rivendica un nuovo ordinamento internazionale fondato sulla pace, l’uguaglianza e la cooperazione tra i popoli.
Dopo il 1945 questi principi facevano parte di un sentire largamente condiviso ben al di là dei confini dell’Italia: per convincersene, basta gettare uno sguardo su altre Costituzioni europee di quegli anni (il primo riferimento è alla Francia), oppure rileggere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite alla fine del 1948. Certo, l’attuazione di questi principi ha costituito un capitolo lungo e travagliato della storia dell’Italia repubblicana, si è scontrata, soprattutto negli anni della guerra fredda, con forti resistenze conservatrici nello Stato e nella società, oltre che con i limiti della cultura di tutte le forze politiche, ed è approdata a risultati tutt’altro che compiuti: e tuttavia si può affermare con sicurezza che il progresso democratico e civile che il nostro paese ha conosciuto nel trentennio successivo alla Liberazione ha trovato nella Costituzione repubblicana il suo più solido fondamento.
Dobbiamo rassegnarci ad accettare che tutto questo venga accantonato come un residuo di un passato definitivamente tramontato o non dobbiamo invece fare di questo patrimonio un punto di riferimento per una nuova Europa della democrazia e dei diritti e non solo della moneta, che tra mille difficoltà e resistenze si va costruendo? Non vi è dubbio che questi principi, che ci fanno anche sentire compartecipi delle migliori tradizioni, delle radici storiche e culturali del modello politico e sociale europeo anche nella sua specificità e nella sua distinzione rispetto al modello americano (si pensi alla conquista di civiltà segnata nel dopoguerra dall’avvento del Welfare State) costituiscano oggi una sfida per tutti coloro che vorrebbero rimodellare le nostre società all’insegna della teologia di un libero mercato del tutto svincolato dalla regole della democrazia. E’ questa l’utopia distruttiva di quello che comunemente si definisce il “pensiero unico” neoliberale, che ha avuto a partire dagli anni Ottanta, insieme con la rileggitimazione della guerra come strumento di soluzione dei contrasti tra gli Stati, una grande influenza internazionale sul piano politico, culturale e soprattutto mediatico e che costituisce l’ideologia legittimante dell’attuale globalizzazione dominata dalla speculazione finanziaria e dai principi del cosiddetto Washington Consensus, con tutti gli effetti devastanti che ne sono derivati. E’ doveroso rilevare che in Italia i suoi interpreti, particolarmente improvvisati e sprovveduti, nella loro pretesa di sostituire i principi della democrazia partecipativa e della solidarietà sociale codificati nella Costituzione con il primato del più ricco e del più forte rischiano di portare al degrado dell’intera sfera pubblica, alla disgregazione e all’imbarbarimento dell’intera società, con conseguenze irreparabili sullo sviluppo economico, sociale e civile del paese.
Non vorrei dare l’impressione che di fronte alle radicali trasformazioni del mondo contemporaneo non ci sia nella Costituzione nulla da modificare, a cominciare dal bicameralismo perfetto che rende in Italia lungo e ferraginoso il processo legislativo. Inoltre andrebbero oggi tutelati costituzionalmente i diritti di “terza generazione, e cioè quelli attinenti alle compatibilità dello sviluppo e all’autodeterminazione dei cittadini nella vita individuale, di fronte all’invadenza dello Stato o al ritorno di pretese integraliste e neoconfessionali. Tuttavia, non sembra che oggi esistano le minime condizioni politiche per avviarsi su questa strada. Al contrario, gli orientamenti delle attuali forze di governo (davvero impressionanti sono gli elementi di continuità che uniscono il “piano di rinascita” della Loggia P2, il craxismo e il berlusconismo), non meno che il vuoto di cultura istituzionale di cui hanno dato prova almeno da un ventennio i partiti e i governi di centro-sinistra, lasciano prevedere che qualsiasi progetto di revisione costituzionale non potrà che accelerare la delegittimazione della Costituzione già da anni in atto, con effetti catastrofici sull’intero sistema democratico. L’attuale coalizione di governo formata dal Partito della Libertà e dalla Lega rappresenta storicamente nel suo elettorato e nel suo ceto politico quella parte non piccola dell’Italia che non ha mai voluto realmente fare i conti con il fascismo e che non si è mai identificata con la Costituzione repubblicana (solo Gianfranco Fini e Giuseppe Pisanu sembrano impegnati in un percorso opposto). Oggi bisognerebbe riflettere seriamente sul nesso che unisce da una parte, la politica berlusconiana, volta da sempre a promuovere la deregulation e lo smantellamento dei diritti del mondo del lavoro, a cominciare della “precarizzazione” che sottrae ai giovani la possibilità stessa di costruire il proprio futuro, nonché il degrado di tutte le istituzioni pubbliche fondate sull’universalità dei diritti (dalla sanità alla scuola, all’università e alla ricerca, alle garanzie pensionistiche irresponsabilmente affidate alla speculazione borsistica); dall’altra, i processi di trasformazione istituzionale e costituzionale che si è cercato di varare attraverso le iniziative unilaterali della maggioranza di governo. Al processo strisciante di erosione della prima parte della Costituzione, hanno fatto così riscontro un attacco all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e all’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo attraverso le leggi ad personam e una controriforma dell’ordinamento giudiziario che dovrebbe essere varata attraverso la legislazione ordinaria. A ciò si è aggiunto nel 2005 un progetto di trasformazione istituzionale e costituzionale che stravolgeva le prerogative del Parlamento e il sistema stesso della separazione dei poteri, indeboliva il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica e l’autonomia della Corte costituzionale, accentrava tutti i poteri nella figura di un premier dai tratti marcatamente plebiscitari e al quale la persistente assenza di qualsiasi legge sul conflitto di interessi e il controllo di fatto dei mezzi di informazione avrebbe potuto conferire anche abnormi risorse mediatiche. E questo anche a prescindere dai pericoli che potevano minacciare la stessa unità nazionale a seguito di caotici processi di devoluzione di poteri alle singole regioni e dell’esasperazione di tutte le disuguaglianze, gli egoismi e i corporativismi all’interno e fra le diverse aree geografiche.
La suddetta controriforma costituzionale, per tornare ad un uso più appropriato della lingua, è stata fortunatamente respinta a schiacciante maggioranza dal popolo italiano nel referendum confermativo del 2006, un risultato di cui, malauguratamente, quasi tutti sembrano oggi essersi dimenticati. Sarebbe stato lecito sperare che dopo la vittoria elettorale dello stesso anno il governo Prodi e le forze di centro-sinistra, come chiedevano i più eminenti costituzionalisti e il presidente Scalfaro, approntassero le garanzie procedurali e istituzionali atte a mettere anche per il futuro la nostra Costituzione e i fondamenti stessi della nostra democrazia al riparo dei rischi gravissimi che si erano sperimentati negli ultimi anni. In realtà nulla è stato fatto e nemmeno progettato in questo campo, esattamente come se nulla fosse accaduto.
E’ lecito interrogarsi a questo punto sulle insufficienze manifestate a partire almeno dagli anni Novanta dalla cultura politica e istituzionale delle forze che fanno riferimento al centro-sinistra: ed in particolare chiedersi se troppo a lungo non si sia protratta la tendenza a considerare l’eredità dell’antifascismo e della Resistenza come un peso da cui liberarsi per favorire una non meglio definita transizione verso il nuovo e verso un auspicato paese “normale” privo di storia e di memoria, sulla prolungata mancanza di una vera battaglia delle idee per la difesa delle radici della nostra storia e del patrimonio di valori della nostra Costituzione, e se tutto questo non abbia finito per favorire ai più diversi livelli i progetti di una destra “eversiva” nella sua ideologia non meno che nei suoi comportamenti.
Oggi, dopo il fallimento dell’esperienza di governo del centro-sinistra, la situazione del paese si ripresenta, se possibile, in termini ancora più allarmanti che negli anni passati. La grave crisi economica e finanziaria in atto rischia, infatti di creare in vasti strati della popolazione una condizione materiale e psicologica dominata dalla precarietà e dall’insicurezza: in assenza di programmi, di valori e modelli sociali alternativi da parte della sinistra, parlamentare e non, tutto ciò rischia di tradursi in forme di aggressività sociale di segno corporativo e xenofobo, se non apertamente razzista. E’ questa del resto la linea che il premier e il suo partito, sotto l’incalzare della Lega sembrano intenzionati a seguire, con il ricorso a campagne mediatiche volte a spingere all’odio contro tutti i diversi e con il varo di provvedimenti di legge di segno razzista contro gli immigrati e ancor più contro i Sinti e i Rom, con tutti i rischi di imbarbarimento sociale e culturale che possono derivarne. D’altra parte, è evidente il nesso che unisce queste politiche con il rilancio su scala più vasta dell’offensiva contro il movimento dei lavoratori, in piena consonanza con gli attuali vertici della Confindustria, con l’impulso alla scissione tra i sindacati confederali e il tentativo di delegittimazione della CGIL, l’attacco ai salari (già tra i più bassi d’Europa) e alla contrattazione nazionale collettiva, alle norme di tutela della salute e degli infortuni sui luoghi di lavoro e allo stesso diritto di sciopero, il licenziamento in massa del personale non strutturato nella scuola, nella ricerca e nella pubblica amministrazione.
Tutto questo getta una luce più chiara sulla nuova emergenza costituzionale che si sta aprendo. Il caso Englaro, a parte i comportamenti politici e mediatici ripugnanti da molte parti messi in atto, è stato utilizzato da Berlusconi per colpire sia lo Stato di diritto, sia il principio della separazione dei poteri. Il tentato ricorso da parte del governo ad un decreto legge al fine di rovesciare una sentenza definitiva emanata dalla Corte di cassazione e la pretesa di esautorare il ruolo di garanzia che spetta alla Presidenza delle Repubblica in materia di decretazione di urgenza, anche a prescindere dalla ferita inferta alla laicità dello Stato, hanno rappresentato un atto eversivo nei confronti della Costituzione: un fatto tanto più grave se si considera che esso è stato accompagnato e seguito dall’appello diretto al popolo e da pesanti e reiterati attacchi ai poteri del Parlamento, alla Rai e alla libertà di informazione.
In questa luce sembra interamente da sottoscrivere l’appello Rompiamo il silenzio, lanciato dall’Associazione Libertà e Giustizia il 7 febbraio 2006. Altrettanto valido appare il monito rivolto all’intero ceto politico dal presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, che ha denunciato lo svuotamento in atto dei principi fondanti della Costituzione, a cominciare da quello più importante, e cioè dal concetto di uguaglianza, che è il “più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra”. Eppure, prosegue Zagrebelsky, senza “uguaglianza la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. Senza uguaglianza, la solidarietà si trasforma in invidia sociale. Senza uguaglianza il merito viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla prostituzione. Nell’essenziale: senza uguaglianza, la democrazia si trasforma in una oligarchia, e non importa se questo rovesciamento avvenga spesso sotto la copertura di parole invariate”.
E’ a dir poco sorprendente come, in questo non inviabile clima politico e spirituale, nell’ambito del Partito democratico siano considerati tuttora validi progetti di revisione costituzionale all’insegna dell’ulteriore rafforzamento dei poteri del premier. Ed è difficilmente comprensibile l’atteggiamento benevolo del gruppo dirigente di questo stesso partito verso un referendum che, ove avesse successo, regalerebbe al paese una legge elettorale anche peggiore della legge maggioritaria fascista del 1923, una legge che stravolgerebbe il principio democratico della rappresentanza e consegnerebbe al partito di maggioranza relativa (anche per un solo voto) il 55% dei seggi in Parlamento. Ma c’è di più: sembrerebbe impossibile non vedere, come, nelle condizioni storicamente determinate del nostro paese, sarebbe irrimediabilmente compromesso anche il principio dell’alternanza, trasformando definitivamente l’attuale governo in un vero e proprio regime. Il fatto che il gruppo dirigente del suddetto partito si stia lanciando con incauta leggerezza in questa nuova avventura, fa fortemente temere riguardo al ricorrente riemergere, in forme anche più pericolose del passato, della cultura improvvisata e delle logiche politicistiche e compromissorie già alla base della fallita bicamerale del 1997.
Non resta che sperare che i grandi temi della democrazia, dell’etica pubblica, della laicità e dell’universalità dei diritti possano tornare ad essere sostenuti da un grande movimento che dia voce a tutti coloro che intendono difendere la nostra Costituzione, il pensiero critico e la convivenza civile, e che non hanno rinunciato a ritenere che ancora sia possibile salvare il nostro paese dal dominio di oligarchie e di interessi privatistici svincolati da ogni controllo democratico, dal “familismo amorale”, dal degrado e da derive autoritarie e plebiscitarie.
Sarebbe auspicabile che questo fosse lo spirito con cui parteciperemo alla prossima festa della Liberazione.

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