Sardi gramsciani

1 Maggio 2010

gramsci

Alfonso Stiglitz

Il 27 aprile cadeva l’anniversario della morte di Antonio Gramsci avvenuta nel 1937 mentre il prossimo 8 maggio, alla Vetreria di Pirri (Cagliari), verrà ricordato Giorgio Baratta che di Gramsci fu uno degli instancabili specialisti, animatore della International Gramsci Society e della rete sarda Terragramsci – IGS Sardegna “dalla Sardegna al mondo, dal mondo alla Sardegna”. Appuntamenti gramsciani che possono essere l’occasione per alcune riflessioni sulla sostanziale assenza di Gramsci dal dibattito politico in Sardegna, salvo lodevoli eccezioni e, al confronto, la grande fortuna all’estero: la recente pubblicazione del volume “Gramsci le culture e il mondo”, contenente gli atti di un convegno organizzato nel 2007 dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’International Gramsci Society-Italia, ne è il segno più eclatante. Il pensiero di Gramsci è considerato ancora fondamentale nei percorsi di studio relativi ai rapporti di potere, non solo politici ma anche culturali, nell’ambito, ad esempio, dei Subaltern studies. Gramsci è un maestro per gli indiani e per l’analisi storica e politica della loro situazione, così come per i brasiliani, o per gli inglesi e così via. Come cantava Peppino Marotto (altra voce significativamente messa a tacere):
Su pensamentu profundu / had esaminadu tottu / in tantas limbas tradottu / zirand’ès tottu su mundu. (Il pensiero profondo / ha esaminato tutto / e tradotto in tante lingue / sta girando in tutto il mondo).
L’unico nostro pensatore, ma anche attivista pratico e concreto, che è riuscito a trasformare la propria sardità in pensiero globale, capace di fornire ancora spunti e strumenti di analisi utili per la ricerca delle nostre identità di ieri e di oggi, adeguati ad affrontare il mondo grande del nostro futuro, paradossalmente non sembra essere tale per noi sardi. La sua capacità e sarda testardaggine di ritenere che “le storie particolari vivono solo nel quadro della storia mondiale” è pensiero, evidentemente, fastidioso.
Il grido di allarme lanciato nei giorni scorsi da Paolo Zucca, ex presidente della “casa natale Antonio Gramsci” di Ales sullo scarso investimento, direi irrisorio, da parte della Regione Sardegna verso quei luoghi di cultura che nell’isola si richiamano ancora a Gramsci, né è l’esempio più chiaro.
Ancora più grave mi sembra l’assenza delle riflessioni sul pensiero gramsciano nell’ambito dei miei studi, quello archeologico e, in particolare, nel dibattito un po’ altalenante sulla “costante resistenziale sarda”, modello al centro dell’analisi sulla storia della Sardegna antica. Un dibattito rinchiuso nel tentativo di ricondurre a unità elementi non coerenti o, troppo spesso, sbilanciato verso la visione della storia come agire di blocchi contrapposti, nel continuo “scontro di Civiltà” che di questi tempi è tornato a essere il faro delle azioni politiche e culturali.
Lo stimolo che ci può dare un ritorno a Gramsci va nella direzione di decodificare le identità totalizzanti, per cui c’è un noi e un loro, quasi che si tratti di due blocchi unitari contrapposti: il mito dell’identità come qualcosa dato, una volta per tutte e non come qualcosa di dinamico, per cui non è possibile mettere insieme i problemi legati all’incontro tra nuragici e fenici e quelli di alcuni secoli successivi che, in un mondo ormai drasticamente differente, vede l’intervento di Cartagine e che, ancora più tardi, e ancora in un altro mondo, quello di Roma.
Dare spazio ai soggetti sociali ci permetterebbe di uscire dallo stereotipo resistenziale, nel quale scompaiono i soggetti e con essi la possibilità di identificarli in carne e ossa. Resistenza come identità totalizzante che non permette di percepire la realtà storica concreta del fenomeno. Detto in altre parole partire dall’analisi puntuale dei singoli contesti per arrivare a un quadro nel quale l’elemento di scontro etnico venga finalmente ridimensionato attraverso l’analisi di rapporti ‘di classe’, parola che nei nostri studi sembra essere considerata poco meno di una bestemmia, e partire dall’applicazione della filologia, elemento basilare del metodo gramsciano: “La filologia è l’espressione metodologica dell’importanza che i fatti siano accertati e precisati nella loro inconfondibile individualità”.
In questo modo il mondo nuragico ci appare non più come un unicum avulso dal tempo e dallo spazio, dalla media età del Bronzo sino all’età medievale, ma come una serie di realtà differenziate in strutture sociali non più basate esclusivamente su rapporti familiari e tribali; altrettanto vale per il mondo fenicio che si affaccia in Sardegna, i mercanti e i coloni non sono portatori di una missione civilizzatrice ma esponenti di ben definiti e radicati rapporti sociali ed economici, che andranno modificandosi nel tempo una volta inseriti nell’isola. Gli stessi termini ‘nuragico’ e ‘fenicio’ hanno una valenza generale e ricoprono una pluralità di realtà caratterizzate da elementi condivisi ma profondamente articolate al loro interno.
Così come è fondamentale la connessione, molto presente in Gramsci, fra la dimensione geografica e quella storica. Ma una geografia mobile, attenta alle differenze, alle molteplici realtà, ben diversa dalla fissità del paesaggio resistenziale di una montagna chiusa e di una pianura venduta al nemico, collaborazionista; una montagna arcaica, immobile e, conseguentemente, Vera.
Questo significa che il confine fisico e culturale tra le culture sia certamente inteso come contraddizione spesso violenta, ma allo stesso tempo anche e soprattutto come differenza; un confine mai fisso, ma mobile, indice di una realtà nella quale l’elemento essenziale è la traducibilità, di linguaggi e di culture, che nell’incontro si modificano, si intrecciano, si fondono e si confondono.
Come diceva un autore entusiasticamente gramsciano, Edward Said, “Abbiamo a che fare con la formazione di identità culturali intese come essenze date (nonostante parte del loro perdurante fascino è che esse sembrino e siano considerate tali), ma come insiemi contrappuntistici, poiché si da il caso che nessuna identità potrà mai esistere per se stessa e senza una serie di opposti, negazioni e opposizioni: i greci hanno sempre avuto bisogno dei barbari”.
E allora il ritorno a Gramsci non sarà, forse, solo un auspicio, quello di Peppino Marotto: ma non mori sa sua ereditade

Letture citate
E. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Roma, Gamberetti, 1998.
G. Schirru (a cura di), Gramsci, le culture e il mondo, Roma, Viella, 2009.

1 Commento a “Sardi gramsciani”

  1. Boicheddu Segurani scrive:

    Sapevamo che per la festa del primo maggio Alfonso Stiglitz avrebbe pubblicato parole particolarmente coinvolgenti. Gliene siamo grati, molto.
    Per il poco che vale, ci sentiamo vicini al suo sentire (e l’alliterazione non è casuale), soprattutto in un momento di rifiuto dell’alterità che ha trasformato troppi sardi in razzisti: a volte consciamente, spesso inconsapevolmente, ed è anche peggio. Se la cialtroneria si può combattere, nulla si può invece contro la stupidità.

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