So che c’è un uomo…

16 Novembre 2010

zanda

Antonello Zanda

So che c’è un uomo. È un’affermazione che chiede i puntini di sospensione, che ci tiene in bilico tra certezza e incertezza. So che c’è un uomo… e sembriamo estranei alla domanda che vi si annida implicita, quasi non fossimo coinvolti in quella umanità a cui ci si richiama, quasi avessimo un’altra identità. “So che c’è un uomo” è il titolo di un mediometraggio di Gianclaudio Cappai, giovane regista sardo che da quel di Nuraminis ha trovato domande da filmare nella penisola, come tanti sardi che non riescono a trovare risposte nell’isola. Con questo film girato in 35mm, già apprezzato al Festival di Venezia 2009, Cappai è stato premiato per il miglior film alla 16° edizione di “Visioni Italiane” a Bologna e per la miglior regia alla 27a edizione del Sulmonacinema 2010 diretto da Roberto Silvestri. Quest’ultimo con le seguenti note di motivazione: “per aver dato vita ad un racconto di grande forza espressiva ed emotiva in cui atmosfere rarefatte ed ambigue si incarnano in modo efficace nei volti e nella fisicità degli attori”.
Ci sono film che parlano al corpo prima che alla mente e ci inducono reazioni che sono i segni evidenti di un’identità fluida e complessa, aggettivi che ci aiutano a scoprirne un’idea più vicina all’essere che sentiamo esserci. Ogni discorso sull’identità dovrebbe partire dal corpo e dall’aria che vi/si respira. L’identità – quella collettiva come quella individuale – è progetto, percorso, mai dato originario, per quanto molti fondamentalismi si alimentino di false quanto vuote ricognizioni mitologiche piene di bassi richiami all’istinto di sopravvivenza. Sono fondamentalismi che nascono dal sentimento immediato dell’“homo homini lupus”, oggi di particolare attualità nell’occidente che vorrebbe proclamarsi “civilizzato” dai sistemi normativi e dall’etica dei diritti e dei doveri. Non è un caso che una riflessione seria nasca e sia innescato da un testo filmico. Perché il cinema crea le condizioni per una analisi e sintesi che nasce dal contesto speculativo, dallo schermo che fa specchio riflettente agli occhi degli spettatori; e nella sua logica duale determina il principio del dialogo, della discussione. In questa situazione lo spettatore moderno è non solo immerso/avulso dall’inquadratura cinematografica, dalla visione, ma è anche esposto, in una triplice triangolazione, alle sollecitazioni del “fuori campo”.
Da un lato è il fuori campo del testo filmico: tutto ciò che è invisibile, presupposto, contestuale, sia relativamente al linguaggio che al contenuto. Dall’altro è il fuori campo del soggetto: la sua storia, le relazioni, i suoi orizzonti e le sovrastrutture culturali sedimentate, esplicite ed implicite. Lo spettatore vive non solo nella materialità delle emozioni coinvolte, nella sensorialità dell’esperienza filmica, ma anche in un rapporto simbolico e culturale che non ha nulla di spirituale, ma che è essa stessa materia formante dell’esperienza. Il filosofo Ernesto Grassi lo scrive bene nel suo “Potenza della fantasia”: «L’uomo moderno, desacralizzato e mondano, vive le direttive del simbolo come smorfia del silenzio, che fa la sua comparsa dietro una vetrina». In un modo non molto diverso, calato nell’esperienza del fare il film lo dice anche Gianclaudio Cappai (da un’intervista): « È tutto una grande costruzione meticolosa, dove è specialmente il lavoro che fai sul fuori campo, sugli “altrove” (i latrati costanti), a far affiorare quel clima perturbante e strano per cui ti chiedi: sento che sta per succedere qualcosa di terribile, ma non riesco a capire cosa…». La storia è minimale: siamo in piena campagna, dentro il non luogo di una qualunque periferia (spaziale e temporale). In questo spazio vive una famiglia, assediata nella sua precarietà non solo da disagi economici, ma anche da problematiche turbative affettive e relazionali, sociali e psicologiche. su questo silenzio della comunicazione reciproca gravano i rumori assordanti della campagna, una conflittualità domestica palpabile più che latente (sublimata nella lotta dei galli), una follia destabilizzante che a partire dalla sofferenza psichica di uno dei personaggi si spalma su tutti gli altri fino alla scena finale tragica e imprevedibile (perché non si può vedere prima della sua uscita dalla latenza, come un fuori campo che preme per imporre un principio catartico).
Non è sbagliato dire che grazie al film l’autore esce fuori di sé, vive un’esperienza ek-statica e la restituisce facendo parlare l’invisibile: non solo il sonoro di un mondo che si vede nella sua totalità ma non nei dettagli, ma anche nei mondi invisibili che si affacciano sull’inquadratura e sull’identità famigliare che costituisce il centro di gravità narrativo del film. L’area invisibile di questo film è il presupposto non esplicitato di ogni comportamento.
C’è un contesto evidente nella sua materia visiva e visibile, c’è una tragedia che si consuma nel silenzio e dal silenzio. Come se il film muovendosi sul piano delle inquadrature lasciasse intendere un altro piano (parallelo, trasversale) in cui la storia è già scritta. Non è solo la mente dell’autore che ha il suo storyboard, ma è l’orizzonte predestinante, il meccanismo ineluttabile, che spinge l’autore a raccontare una storia che una volta iniziata, procede da sé e l’autore, Gianclaudio Cappai, non può fare altro che lasciare che si racconti. Anche in “Cuore di vetro” di Werner Herzog, gli attori, ipnotizzati, mostravano uno script depositato nella loro coscienza messa a nudo. In questo meccanismo narrativo entrano in gioco pulsioni, emozioni – il deposito dell’inconscio – che l’autore mette in gioco perché il cinema è sempre un mettersi in gioco. Anche gli attori sembrano cogliere questo contesto emotivo e si danno al film come corpi ed emozioni, si mettono in gioco, lasciandosi andare ad una storia che sembrano vivere prima che recitare.
Non poteva venirne fuori che un film perturbante, in cui l’immagine proiettata copre il silenzio del non detto, del predetto, mentre il visibile racconta i corpi, l’emozione materializzata nei corpi, la materia degli sguardi, la fisica dei sensi. Il sonoro immerge nel film come se fosse il tempo e lo spazio stesso del film e tutto ciò che si muove dentro l’inquadratura ha la forma, la dirompenza, la ruvida sensualità dei suoni: voci, rumori e silenzio vibrano all’unisono con il visivo. Questa sinfonia mette a nudo i sentimenti dei personaggi, li spoglia e li sottrae all’ipocrisia dell’apparenza. Emergono dalla vetrina del mondo superficiale ed esteriore e si fanno smorfia del silenzio. In questo movimento pulsante dal film alla pancia del pubblico, lo spettatore respira al ritmo del respiro del film, immerso nell’universo sonoro, completamente – psicologicamente e sensorialmente – coinvolto. Uomini e donne, così messi a nudo, vivono e recitano senza pelle.
Sembra di poter dire, ricordando De André, che per quanto noi ci sentiamo assolti – perché gli spettatori sono alieni al mondo del film: si entra in sala per tuffarsi nel buio della rinascita e della imminenza della luce, ma si combatte corpo a corpo con la propria identità per tenerla fuori, ancorata alla luce del mondo reale – siamo sempre, comunque, inconsapevolmente, volenti o nolenti, coinvolti, invischiati nel vortice di turbamenti che il cinema scatena.
Qui veramente viviamo la temperatura viva di una identità individuale che non può definirsi fuori dal corpo collettivo e di una identità collettiva che non può definirsi a prescindere dai progetti identitari dei singoli. È un’identità quindi da sentire come percorso, come orizzonte culturale, che tiene in sé non solo ciò che sta al di qua dell’orizzonte – il visibile, lo storico, i bisogni, il passato, su connottu, il sedimentato, l’emigrato – ma anche ciò che fa essere orizzonte un orizzonte, quindi ciò che sta al di là e che non riusciamo a catturare definitivamente – l’invisibile, il futuro, l’ignoto, il conoscibile, il possibile, il contesto, la cultura, l’immigrato. So che c’è un uomo… questo è il progetto. C’è di che rieducare i fondamentalisti dell’identità.

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