Fra tecnica e politica. Strategie per le città

15 Giugno 2007

Antonietta Mazzette

IL MONOPOLIRecentemente in Sardegna sono stati approvati i piani strategici di molti insediamenti urbani. È accaduto ad Olbia e Sassari, nei mesi scorsi ad Alghero e Nuoro, mentre quello di Cagliari è in itinere, per limitarci soltanto ad alcuni esempi. Ad uno sguardo esterno ciò potrà apparire come una frenesia compulsiva che sta attraversando l’Isola da Nord a Sud; in realtà la recente e diffusa adozione di questi strumenti è dovuta alla Regione sarda che ne ha sollecitato l’applicazione, sebbene le indicazioni generali di azione strategica da essa prodotte siano state a dir poco vaghe e pressoché inutilizzabili.
Le prime città italiane coinvolte in questo processo sono state quelle su cui ha pesato maggiormente il declino industriale, Torino e Genova, ma a questo processo non si sono sottratte città medie e piccole. La Sardegna invece arriva doppiamente in ritardo rispetto al resto d’Italia e all’Europa, perché l’adozione dello strumento strategico va di pari passo con le politiche di rigenerazione, costituendo non solo una risposta al superamento della crisi urbana di impronta fordista ma anche un percorso obbligato volto sia all’individuazione di efficaci strumenti di governo, giacché quelli relativi alla pianificazione tradizionale avevano da tempo perso la loro capacità d’azione, sia all’elaborazione di visioni unitarie e di forme di ricomposizione socio-territoriale.
Sono numerose le ragioni che hanno indotto le città ad adottare politiche di azione strategica. Mi limito ad indicarne tre: a) hanno dovuto affrontare i problemi connessi alla crisi del modello di tipo fordista; b) hanno dovuto affrontare i problemi (anche in termini di sicurezza) della riqualificazione e riconversione di vaste aree dismesse; c) hanno dovuto mettere in campo attività legate allo svago e al consumo, in sostituzione di quelle direttamente dipendenti dalla produzione materiale, non ultimo perché si sono fatte aggressive le forme di competizione urbana nella scena nazionale ed internazionale. Politiche che sono state ampiamente sollecitate dalla Comunità europea già con la programmazione dei fondi strutturali 2000-2006 (attraverso gli strumenti dell’Interreg, di Urban I e II) ed ora costituiscono parte integrante delle linee guida della strategia comunitaria 2007-2013, con gli obiettivi, anzitutto, di promuovere ed estendere buone pratiche di governance, in secondo luogo, per produrre decisioni rapide e per sollecitare patti e vincoli tra attori pubblici-privati; in terzo luogo, per costruire visioni condivise di città sostenibili attraverso reti di cooperazione fra diversi soggetti sociali. Tutto ciò al fine di migliorare le condizioni di vita dei cittadini in termini di lavoro, coesione sociale, mobilità, qualità dei servizi, uso compatibile delle risorse scarse; migliorare le condizioni territoriali in termini di vocazioni produttive, rafforzamento delle identità culturali, capacità d’uso della conoscenza, codici condivisi di comportamento responsabile.
Tutto bene dunque? Solo in parte. Gli elementi positivi sono stati numerosi e tra questi segnalo il fatto che le città hanno prodotto un rilevante patrimonio conoscitivo – basti pensare ai vari documenti di diagnosi che ogni città ha saputo elaborare ai fini strategici. Inoltre si sono poste il problema di ri-attivare il processo partecipativo che si era rarefatto in relazione ai mutamenti critici della sfera politica; infine, ma non da ultimo, hanno acquisito centralità politica anche in relazione al nuovo ruolo manageriale ricoperto dalla figura del sindaco – per ciò che riguarda l’Italia a seguito delle modifiche elettorali dei Comuni – che ha dato una grande visibilità tanto al sindaco quanto alla città, in termini sia mediatici sia di contrattazione con i poteri centrali sia di competizione con le altre città.
Ma proprio in relazione a questi aspetti positivi vanno segnalati tre aspetti controversi: l’indebolimento delle regole urbanistiche; l’indebolimento dell’azione pubblica nei processi di trasformazione urbana; il rafforzamento di una visione tecnicista degli strumenti di piano.
Per ciò che riguarda il primo elemento va sottolineato il difficile rapporto che si è concretamente stabilito tra strumenti ordinari di pianificazione e piani strategici, nonostante il piano strategico non sostituisca il piano urbanistico. Ciò vale ancor più in Italia dove, a differenza di altri Paesi, la proprietà non è separata dal diritto d’uso.
Per ciò che riguarda il secondo elemento, va specificato che si è diffusa una sorta di delega anzitutto ai sindaci ma anche ai tavoli di ascolto, comitati tecnico-scientifici, e così via. Ciò non significa che sul piano formale le amministrazioni comunali e sovra-comunali non abbiano rispettato l’iter decisionale, bensì che vengono legittimati altri attori a compiere le scelte ‘a monte’: customers; stock-holders, stake-holders, policy-makers o managers.
Per ciò che riguarda il terzo elemento, va detto che si è reso fatto tecnico ciò che invece è politico, a partire dalla selezione degli attori da coinvolgere nei processi partecipativi, dalla costruzione degli scenari, dalla scelta delle idee progettuali. Gli stessi termini applicati e condivisi dalle città che hanno istituito azioni strategiche rinviano a quest’idea tecnicista della cosa pubblica.
In relazione a questi aspetti controversi, le città sarde come si sono collocate? Ovvero, il ritardo con cui sono partite nell’adozione dell’azione strategica ha consentito loro di limitare i danni degli effetti negativi e potenziare quelli positivi? Lascio aperti questi quesiti perché la valutazione dell’efficacia dell’azione strategica va fatta solo quando si vedranno i primi risultati concreti, con il timore però che la fretta con cui si è proceduto un po’ ovunque abbia portato l’amministratore di turno a sottostimare (quando non a ignorare) il peso degli effetti negativi che altrove sono ormai ben visibili.

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