Sulcis: dove sono le politiche attive del lavoro?

1 Febbraio 2014
sulcis
Michela Angius

L’occupazione della miniera di piombo e zinco situata a Monteponi dai lavoratori ex-Rockwool ha riacceso i riflettori sulla drammatica situazione del Sulcis. Tra il 9 e il 10 Gennaio tredici lavoratori interinali, in cassa integrazione dal 2010 e con la mobilità scaduta il 31 Dicembre, hanno iniziato l’occupazione della galleria Villamarina di Iglesias perché a differenza dei loro 54 colleghi diretti, non hanno trovato una collocazione nella società Ati-Ifras.
Agli ex-lavoratori Rockwool si aggiungono quelli dell’Alcoa. Il 2 Gennaio il Ministero del Lavoro ha rinnovato gli ammortizzatori sociali alle maestranze dirette della multinazionale americana, leader nella produzione di alluminio, in attesa che riapra lo stabilimento. La soluzione per l’Alcoa di Portovesme dovrà essere individuata entro il primo Gennaio del 2015. Infatti, da tale data si avvierà la procedura di licenziamento e mobilità.
Il gesto estremo dei lavoratori interinali ex-Rockwool mette in luce il problema riguardante la mancata politica di riqualificazione lavorativa delle persone che vivono in una zona della Sardegna in piena crisi industriale. Maggiore è il tempo che un lavoratore trascorre senza svolgere un’attività lavorativa, più alto sarà il livello di deterioramento del suo bagaglio professionale.
La legge italiana obbliga i lavoratori che fruiscono della Cassa Integrazione Guadagni a partecipare ai corsi di formazione o riqualificazione professionale. Tra i corsi di formazione organizzati da Alcoa vi era l’imprenditorialità e la lingua inglese. La validità di tali percorsi formativi è facilmente deducibile da alcune riflessioni compiute dagli stessi lavoratori. La maggior parte delle persone che hanno partecipato al corso per la creazione d’impresa non hanno dato seguito alla propria idea imprenditoriale. Mentre il corso di lingua inglese è stato valutato come poco utile ai fini di una vera e propria riqualificazione.
La formazione di tipo professionale per essere efficace deve essere progettata in seguito ad un’approfondita analisi della domanda che tenga conto dei bisogni, attitudini e motivazioni dei lavoratori. L’Alcoa pur avendo interpellato i suoi dipendenti, ha lasciato le loro richieste su carta. Secondo alcuni lavoratori poteva essere più vantaggioso partecipare a corsi di formazione per professioni richieste anche all’estero, come quelli per elettricisti o strumentisti.
La formazione, anche quando validamente progettata, da sola non è però sufficiente. Esistono diversi strumenti che consentono di sostenere i lavoratori, ridare loro la dignità e la speranza per un futuro che altrimenti appare immodificabile. Una metodologia utilizzata con ottimi risultati in diversi Paesi europei, ma sottovalutata in Italia, è l’outplacement. Esso consiste in un insieme di attività che hanno come scopo quello di accompagnare il lavoratore nella valutazione della propria esperienza professionale per individuare una collocazione lavorativa che può essere anche diversa da quella svolta in precedenza.
L’outplacement è parte integrante delle politiche attive del lavoro di molti Paesi europei come Francia, Germania e Paesi Bassi. In Italia il funzionamento delle politiche attive è disastroso. Nel 2011 su 27 miliardi di euro destinati alle politiche del lavoro, solo 4.8 sono stati utilizzati per gli interventi che hanno il compito di creare nuova occupazione o di agire sulle possibili cause della disoccupazione (fonte Eurostat).
I dati Eurostat mostrano che le politiche attive del lavoro hanno un effetto positivo sui tassi di occupazione, in modo particolare sul lavoro femminile e sui lavoratori poco qualificati. Negli Stati europei con i più bassi livelli di disoccupazione di lunga durata, è più alta la partecipazione alle politiche attive del mercato del lavoro.
Oltre ad investire poco sulle politiche attive per l’occupazione, l’Italia è lo Stato europeo che ha speso meno in politiche del lavoro rispetto al PIL (1.7%), contro una media europea che ha superato il 2%. Il Belgio ha speso il 3.7% del PIL, la Francia il 2.3% e il Portogallo l’1.9% (fonte Eurostat, 2011).
Per capire quanto effettivamente lo Stato abbia considerato utili le politiche attive del lavoro, è sufficiente sapere che in Sardegna su 117.087 interventi di politica attiva, già molto pochi, solo 312 sono stati realizzati nella provincia di Carbonia-Iglesias (fonte Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2012). E’ un dato sorprendente se si pensa che il polo industriale di Portovesme dava lavoro a circa 3.000 persone.
Qualche giorno fa è circolata la notizia di un piano straordinario per il rilancio proprio delle politiche attive del lavoro. Se in un primo momento fornire un supporto economico a chi non aveva più un’occupazione, poteva sembrare la soluzione migliore e anche quella più rapida, oggi appare chiaro che ciò non è sufficiente.
L’assenza di politiche attive nel Sulcis sembrerebbe imputabile all’assenza di un piano di ripresa e sviluppo sostenibile che sia in grado di affrontare il dramma vissuto dai lavoratori di Portovesme. Se perfino lo Stato si è disinteressato della riqualificazione professionale dei propri cittadini, è possibile pensare di far leva sulla responsabilità sociale degli imprenditori?

1 Commento a “Sulcis: dove sono le politiche attive del lavoro?”

  1. giacomo oggiano scrive:

    Coraggio! Qualcosa si sta facendo. Sei milioni per una pista d’atterraggio semi-abbandonata in un bacino d’utenza di 50.000 persone a un mese dalle elezioni è un buon investimento. Scajola docet, il suo collegamento ad personam Abenga-Roma ha fatto scuola. Al confronto, qualche migliaio di euro di spese elettorali deviate su acquisti personali è roba da quaccheri da quaccheri.

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