Tempo di bilinguismo?

1 Gennaio 2013
Mario Cubeddu
Se fosse a dar retta a quel che dicono i politici sardi, l’isola sarebbe avviata entro breve tempo a una dichiarazione di sovranità e a una applicazione del bilinguismo nelle istituzioni educative e culturali. L’assessore alla cultura della giunta Cappellacci, Sergio Milia, ha pronunciato, durante la settima conferenza regionale della lingua sarda ad Aggius un mese fa, un discorso di pieno sostegno all’insegnamento della lingua sarda nelle scuole e al suo uso in tutti i contesti. Questo è almeno ciò che possiamo desumere da affermazioni come questa:  “Il bilinguismo è una risorsa contro la crisi e può essere la base per un nuovo progetto di rilancio economico, sociale e culturale per la Sardegna. La lingua sarda e le varietà alloglotte devono unire le nostre genti e non dividerle”. Qualche settimana dopo il Consiglio Regionale ha approvato un ordine del giorno di pieno sostegno a questa linea. Queste le parole non nuove pronunciate dalla politica sarda a proposito di bilinguismo. Sul piano pratico esse si traducono in un attacco allo “stato tiranno” che negherebbe i fondi necessari alla tutela della lingua sarda. Con l’aggiunta ragionevole che se lo stato italiano ha le sue responsabilità, altrettante e maggiori ne ha la Regione sarda che ha ignorato questo problema per decenni e lo ha scoperto solo grazie a forti sollecitazioni di gruppi di intellettuali. Sulle opinioni presenti nella società sarda, sulla sensibilità e l’interesse al problema da parte dei cittadini, ci sono opinioni differenti. Una ricerca realizzata dalle due Università sarde, presentata qualche anno fa alla terza edizione della stessa Conferenza, concludeva che più della metà dei sardi conoscono e usano la lingua sarda, ne  riconoscono l’importanza e ne auspicano la tutela e valorizzazione. Sembrano invece prevalere i dubbi e le perplessità sull’introduzione dell’insegnamento del sardo nelle scuole come “lingua straniera” o addirittura come lingua veicolare da usare per insegnare le altre materie, la letteratura o la matematica, per fare un esempio. Una conseguenza minore, ma significativa, delle giornate di Aggius si è verificata nella rete, lo strumento oggi più diffuso di dibattito politico e culturale. In uno dei blog sardi più seguiti il giornalista cagliaritano Vito Biolchini, reduce dalle due giornate della conferenza, salutava con soddisfazione il clima unitario del dibattito dove si poteva verificare dal vivo la sostanziale unità della lingua sarda nel fatto che ciascuno degli intervenuti parlava il suo sardo davanti a un uditorio che lo capiva perfettamente e gli rispondeva con la sua variante. Attraverso i commenti all’articolo, scritti quasi tutti in sardo, si potevano leggere le principali posizioni sul problema oggi presenti in Sardegna: sostegno appassionato, dubbi, posizioni contrarie. Queste ultime ripropongono la presunta incapacità della lingua sarda di confrontarsi con i linguaggi della scienza e della cultura, a meno di perdere la sua natura di lingua “rustica”, e la sostanziale rassegnazione alla sua progressiva scomparsa. Dai sostenitori del sardo è nata invece una proposta diversa: se il modo migliore, o forse l’unico, per aiutare il sardo è quello di parlarlo in tutti i contesti, in famiglia, nella società, nella scuola, perché non costituire un gruppo in cui sardi di ogni parte dell’isola si incontrano per confrontare le varietà del sardo e discutere dal livello della società civile e urbana la questione della lingua in Sardegna? Tutti conoscono il sostegno manifestato da Antonio Gramsci al sardo come lingua materna da trasmettere ai bambini. Egli non riteneva che si trattasse di una battaglia reazionaria o di retroguardia. Anticipava le lodi del bilinguismo e la sua utilità nella crescita e nello sviluppo umano e culturale di bambini e ragazzi. Certo per lui la lingua della cultura era l’italiano. Il sardo, anche se riconosciuto sin dal XVI secolo dagli intellettuali sardi di allora come la lingua della “nazione” sarda, non ha avuto la forza di imporsi nella scuola e nell’amministrazione, al contrario di quanto era avvenuto per altre lingue come il catalano. Le classi dirigenti cittadine scelsero per i loro figli il castigliano, la lingua dell’Impero. Il sardo è ancora lingua delle classi dirigenti durante il triennio rivoluzionario e in sardo vengono cantate le rivendicazioni del movimento antifeudale. Quando poi nelle trincee il soldato sardo interpella l’ombra che si muove nel buio con la frase “si ses italianu, fuedda in sardu”, se sei italiano parla in sardo, fatti riconoscere come uno dei nostri, qui siamo tutti sardi, la questione della lingua è diventata secondaria per i movimenti popolari di massa rispetto alle grandi questioni dell’economia e della politica democratica. La conquista della lingua nazionale è stata considerata uno dei passaggi decisivi nel processo di sviluppo materiale e spirituale dei ceti popolari. Su questo è legittimo nutrire dei dubbi. Ogni lingua che muore costituisce una perdita drammatica. E’ giusto e naturale che chi l’ha ricevuta in eredità da una madre pensi di difenderla e proteggerla. Facendo qualcosa di concreto, parlandola, scrivendola. E’ il meglio che si può fare, probabilmente. Come è lecito e giusto sperimentare una sua presenza nell’ambito scolastico, almeno per fare in modo che se ne riconosca la dignità. Sarebbe molto triste che essa venisse inclusa da coloro che combattono i mali prodotti dal capitalismo tra quegli aspetti del mondo popolare che le dinamiche culturali prodotte dall’egemonia borghese hanno condannato al disprezzo e all’abbandono.

4 Commenti a “Tempo di bilinguismo?”

  1. michele podda scrive:

    Le parole al vento di Milia confermano l’atteggiamento storico dei politici sardi TUTTI nei confronti della lingua: usa e getta. La sua dichiarazione roboante (il bilinguismo una risorsa, la lingua deve unire) non esprime né volontà né auspicio, ed è purtroppo priva di senso. Sull’odg poi ha chiesto il ritiro perché, a suo dire, il suo impegno andava già oltre tale richiesta.

    E’ una cosa seria proporre di riunirsi così, alla chetichella, gruppi di appassionati per fare i confronti fra le diverse parlate? Suvvia, ci vuol altro! In famiglia, nella società, nella scuola … aggiungo negli uffici, in chiesa, alle feste paesane, nelle discoteche… non è proibito parlare in sardo, MA NESSUNO LO FA. La lingua sarda NON HA PIU’ DIGNITA’, PRESTIGIO, e soltanto l’insrgnamento obbligatorio potrebbe restituirglielo, forse. Se non si comprende questo si è soltanto in malafede, ossia si vuole che le cose stiano così come sono.
    In quanto a difendere l’eredità di una madre, c’è poco da illudersi; politici e funzionari interessati e cinici sarebbero capaci di vendere lingua e madre per proprio tornaconto. Se così non fosse prima d’ora avrebbero essi stessi puntato sull’insegnamento obbligatorio della lingua, cosa che mai hanno fatto. E per favore, che non si parli ancora di sperimentazione, cosa che va avanti dagli anni novanta.

    Infine, caro Mario, chiarisci il periodo finale, che forse lo merita.

  2. Mario Cubeddu scrive:

    Chiarisco subito cosa intendo dire con l’ultimo periodo. che mi sembra comunque abbastanza chiaro. La questione della lingua sarda, la questione sarda intesa come rispetto dei diritti di un popolo non solo a sopravvivere, ma a stare bene e a migliorare le proprie condizioni, come individui e come popolo, è stata considerata spesso in modo ambiguo dalla sinistra sarda. Sono abbastanza grande da ricordare il rifiuto dell’esistenza stessa del concetto di popolo sardo da parte di tanti intellettuali comunisti. Questo condannava il sardo alla condizione dialettale e subalterna, a un destino di lenta agonia. Non sono mai riuscito a spiegarmi le ragioni di questa subalternità all’ideologia nazionale italiana, che ha avuto il suo culmine e la rappresentazione più forte nel fascismo. Per me essere di sinistra ha sempre significato anzitutto rispetto del popolo per quello che è. I pastori e i contadini in mezzo ai quali sono cresciuto mi vanno bene così come sono, non ho bisogno che diventino operai per considerarli capaci di rendere migliore il mondo in cui viviamo.
    Quanto alle osservazioni sulle proposte concrete, in particolare sugli incontri di conversazione, io so che in altre realtà europee è stato il movimento dal basso a dare forza alle rivendicazioni linguistiche. In Kabilia si sono messi a fare lo sciopero della fame perchè la loro lingua entrasse nelle scuole. In attesa del meglio, che può essere l’insegnamento obbligatorio, cominciamo a fare qualcosa.

  3. michele podda scrive:

    Chiarimento perfetto che condivido in tutto, naturalmente.
    Per quanto riguarda gli incontri di conversazione, vi sono altre iniziative pro limba. Ne elenco alcune:
    – corsi di lingua sarda in tutte le scuole dell’Isola, dopo la 26 (1997); – concorsi di poesia (ma anche prosa) in lingua sarda (fino a cento all’anno); – Ufficio della lingua sarda presso l’Ass.to P.I; – Spotelli linguistici; – Consigli comunali che parlano in sardo; – pubblicazione di atti amministrativi; – studi, pubblicazioni e corsi (Università di Cagliari e Sassari); – tavole rotonde, convegni e conferenze a iosa. L’elenco potrebbe continuare con messe, teatro, musica, giornali, radio e altro ancora. Tutto questo impegno che continua dagli anni ’90, NON HA FERMATO la TENDENZA ALL’ESTINZIONE, come dicono le ricerche (Oppo 2007). Cosa può aggiungere il fatto che 10, 100 o 1000 gruppi si riuniscano ogni tanto per parlare in limba? I giovani e i bambini NON LA PARLERANNO MAI, se non entrerà d’obblio a scuola; SOLO QUESTO CONTA per davvero. Questo stesso articolo contribuisce a chiarire e sensibilizzare più degli incontri, ma non può determinare un vero cambiamento.
    Il movimento dal basso sì; ma se non si riesce a promuoverlo e coordinarlo per temi ben più “pesanti” come lavoro o democrazia, non credo che per la lingua si possa fare di meglio. E in ogni caso tale movimento (e quegli incontri) dovrebbe COSTRINGERE I POLITICI ad approvare la legge sull’insegnamento. NON VEDO ALTERNATIVE.

  4. Giacomo Oggiano scrive:

    Perchè mia figlia alla quale , a fatica, ho insegnato la lingua paterna (la madre non è sarda), forse l’unica a rischio estinzione, considerata alloglotta dai sapientoni del sardo veicolare o LSC , dovrebbe studiare in uno strano campidanese ( molto meglio quello originale che mi sembra più espressivo, per quel po’ di battute che sono in grado di capire). Ogni lingua che muore è una perdita drammatica, condivido. Meno drammatica se scompare il sassarese ( magari insieme gallurese) , che tanto è alloglotto e non NAZIONALE? Alloglotta una parlata che è attestata pienamente già all’inizio alla fine del XIII secolo? Scusa ma cosa cosa c’entra tutto ciò con Gramsci, che parlava di lingua materna e, sopratutto, col comunismo?

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