Autonomia sindacale e governi amici

1 Agosto 2008

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Loris Campetti

Qualsiasi dirigente sindacale, a prescindere dall’orientamento politico suo e dell’organizzazione che dirige, è disposto a giurare che si rapporterà al governo in assoluta autonomia, senza pregiudizi e subalternità, senza tener conto del colore dell’interlocutore. Un sindacato rappresenta una parte sociale e deve battersi per la realizzazione degli obiettivi della sua parte, per migliorarne la condizione materiale. Se un governo sceglie politiche che vanno nella direzione opposta, è contro quelle politiche e non contro il colore del governo che il sindacato mobiliterà i lavoratori e i pensionati. Così come il consenso sindacale non può essere motivato sulla base del «governo amico». Ma la Cgil è stata sempre fedele a questo imperativo? Per limitarci alle scelte compiute in questo primo scorcio di millennio, si può dire che sicuramente la Cgil non ha fatto sconti al governo Berlusconi rimasto in carica cinque anni a partire dal 2001. Come dimenticare le grandi mobilitazioni in difesa dei diritti, e in particolare dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? O contro la legge 30, firmata da Cisl e Uil? La svolta arriva con il congresso di Rimini del 2006, quando Epifani e la maggioranza della Cgil puntano tutte le fiches sulla vittoria di Prodi, della serie «Il mio programma è il vostro», e viceversa. Autonomia non vuol certo dire indifferenza, altro conto però è introiettere la categoria del «governo amico». Un investimento eccessivo sul governo dell’Unione, una liquefazione della critica alle politiche economiche e sociali di Prodi, fin troppo simili a quelle dell’esecutivo Berlusconi, una riduzione patologica della conflittualità e della mobilitazione popolare, l’imposizione di accordi mal digeriti dalla base, hanno accompagnato e non ostacolato la rottura tra il centrosinistra, i lavoratori e i ceti più esposti della popolazione. Delusione, sconforto, rabbia (come dimenticare i fischi di Mirafiori?) per le mancate promesse elettorali, hanno prodotto l’esito politico che ben conosciamo, dopo appena due anni dall’avvio dell’avventura prodiana. La critica e la protesta non hanno risparmiato la sinistra radicale, travolta dal risultato delle urne. E la Cgil? Anche la Cgil, a torto o a ragione, è stata identificata con la casta politica, in particolare con quella ex sinistra diventata Pd che ha tra i suoi pilastri l’equidistanza tra capitale e lavoro. Al di là dei numeri delle tessere (rinnovate automaticamente con trattenuta effettuata alla fonte dai datori di lavoro pubblici e privati), la Cgil non gode di buona salute, come del resto tutti i sindacati nel mondo travolti dalla globalizzazione liberista a cui non sanno contrapporre un’altra idea di relazioni sociali. La Cgil non gode neppure di buona immagine. E i lavoratori stanno malissimo, con i salari più bassi d’Europa. Ora che la fase è mutata, ora che non c’è più il governo (falso) amico ed è tornato sul trono il Cavaliere di Arcore, ora che la sinistra è stata espulsa dal Parlamento e il Pd si muove nell’ombra di una non opposizione, per il maggior sindacato italiano si pone il problema del che fare, di come collocarsi nel nuovo scenario, drammatico per i lavoratori. Epifani ha ben chiari i rischi insiti in questa stagione e sa che dal governo Berlusconi non arriveranno che bastonate per lavoratori e sindacati. Per questo, dall’inizio della legislatura ha lavorato all’unità con Cisl e Uil. Quasi a ogni costo. E ha articolato la sua azione: contro il governo, pur difendendo lo strumento della concertazione, ma non contro Confindustria con cui punta a siglare un accordo il meno dannoso possibile per (contro)riformare il sistema contrattuale. Senonché, Cisl e Uil non sembrano così indignate nei confronti delle politiche sociali ed economiche del trio Tremonti-Sacconi-Brunetta che in pochi mesi hanno scavalcato a destra la legge 30, peggiorato le condizioni dei precari, attaccato l’articolo 18, cancellato (salvo ripensamenti e qualche aggiustamento) le pensioni sociali per i poveracci. E detassando gli straordinari, ha deregolato ulteriormente il lavoro, favorendo di fatto la crescita degli infortuni e degli omicidi bianchi. E ancora, il governo Berlusconi non concerta, decreta. E ancora, Confindustria non è meglio del governo, anzi gli detta l’agenda economica e sociale. Vuole sterilizzare i contratti nazionali e legare gli aumenti salariali nel secondo livello esclusivamente agli utili d’impresa. Già si parla di un possibile accordo separato governo-Confindustria-Cisl e Uil. E rotture dell’unità sindacale sono già state realizzate da Cisl e Uil nel commercio e nella vertenza Fincantieri. A settembre tutti questi nodi verranno al pettine in corso d’Italia, sede nazionale di una Cgil la cui nuova segreteria è fatta a immagine e somiglianza del suo segretario. Democrazia e partecipazione, penalizzate da una gestione verticale motivata dalla situazione emergenziale uscita dalla sconfitta elettorale, potrebbero rispuntare con forza pretendendo una maggiore autonomia e conflittualità della Cgil. Se non si può concertare, comincia a pensare anche chi non è sospettabile di posizioni radicali, bisognerà ricominciare con la lotta. La partita è apertissima.

1 Commento a “Autonomia sindacale e governi amici”

  1. Cristina Ronzitti scrive:

    Il sospetto di posizioni radicali…, la necessità del dialogo a tutti i costi…..Sembra quasi che la difesa dei diritti dei lavoratori si debba fare solo in frac e guanti bianchi a suon di walzer e minuetti….altrimenti si viene tacciati di… comunismo…. Mentre il governo va avanti a colpi di maggioranza e di fiducia nei fatti infischiandosene del dialogo (invito ad ascoltare radio parlamento) …..Penso che ricorrere alle lotte, vocabolo da intendersi ASSOLUTAMENTE nel senso pacifico del termine, sia un diritto SACROSANTO in un periodo in cui dei diritti dei lavoratori, già parecchio erosi, si debba conservare almeno quel che ne resta. Per evitare almeno la cancellazione dei contratti di categoria, unico baluardo difensivo del lavoratore….

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