Tra l’Arcadia e il kitsch, dalla Carlo Felice al West

30 Aprile 2007

Sante Maurizi

SARDEGNA KITSCH«Le scatole senza confetti, / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, / un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, / gli oggetti col monito, salve, ricordo…». Guido Gozzano all’inizio del ‘900 le chiamava «buone cose di pessimo gusto», e in Baviera qualche decennio prima si era iniziato a definire come kitschen il costruire mobili assemblando vecchi pezzi. Oggi le bocce di vetro con dentro la neve e il monumento tipico, i portacenere a forma di Colosseo, l’intera città di Las Vegas, l’Italia e la Sardegna in miniatura, sono parte di un universo che rende indistinguibile il kitsch dal pop e dal trash, categorie tutte in ottima salute. D’altronde gli incassi dei cosiddetti «bookshop» – con e-Bay fra i luoghi odierni più frequentati e di maggiore spaccio kitsch – costituiscono fra le principali entrate delle grandi strutture museali: le quali, situandoli nell’atrio di ingresso, come vergognandosi di parenti facoltosi ma imbarazzanti, li espellono dal proprio seno pur attingendo alla loro borsa.

È senz’altro nell’estetica sette-ottocentesca l’origine del kitsch propriamente detto: il patetico, l’accumulo, l’eccesso di visibilità e di sentimento, il pittoresco, il melodrammatico, danno origine a una paccottiglia di idee e oggetti studiata in particolare da Broch, Greenberg, Dorfles, Eco. Abraham Moles, affascinante figura di ingegnere elettrico e semiologo, autore nel 1977 di una «Psicologia del kitsch», sottolineava che siccome vertkitschen significa rifilare con l’imbroglio, vendere qualcos’altro al posto di ciò che era stato richiesto, il termine kitsch sottintenda «un’idea morale subalterna, una negazione dell’autentico». Considerare quanto il dibattito sull’identità negli ultimi cinquanta anni in Sardegna si sia nutrito delle categorie di «subalterno» e di «autentico» darebbe di diritto all’Isola il titolo di luogo ideale dove esercitare il pensiero su ciò che è kitsch e ciò che non lo è.

«Itte kitsch», uno dei tre allestimenti – ideato dal docente di Beni Culturali Marcello Madau – curati dall’Accademia di Belle Arti di Sassari presso la Frumentaria è stato un utile momento di piacere e riflessione sugli oggetti che fra la «traversata turistica» e il «ricordo emigrato» costituiscono un piccolo ma fantastico campionario del gadget made in Sardinia, convenzionale e ridondante: dai quadretti in sughero alla bambola in costume, dai boccali a forma di nuraghe all’immortale «Lo scudetto in Sardegna» cantata in sottofondo da Serafino Murru («E Riva il cannoniere / quando tira il rigore / fa tremare il portiere»).

Paccottiglia, si diceva: ma è meglio non snobbare una produzione che crediamo relegata a quel passato, pur recente, nel quale la Sardegna si affacciava «vergine» alla società delle merci e dei consumi. Ancora oggi la riproposizione continua del nuraghe (guardate sulla Carlo Felice, nella piana di Giave, che meraviglioso trompe l’oeil un ignoto artista ha dipinto all’angolo di un prefabbricato industriale), ore e ore di seguitissime trasmissioni televisive sui canti e balli «tradizionali», o quella frasetta utilizzata in tutti i progetti e i piani strategici del più piccolo dei comuni («valorizzazione del patrimonio culturale locale»), sono fra i sintomi più semplici da decifrare della persistenza del kitsch nell’oggi.

La leggerezza del lavoro degli studenti parte dunque dal divertissement, senza però abdicare a una funzione critica, sottolineata ad esempio nelle note di accompagnamento alla mostra: «Dove c’è kitsch, c’è anche un ricco patrimonio culturale e paesaggistico: in Sardegna nuraghi, sughero, pecore, cinghiali, e i colori del vestiario; da poco, nel mercato dell’oggettistica, i gruppi dei tenores. Che il nostro sardo-kitsch sia di sollievo, dialettica e farmaco salvavita al Museo Regionale dell’Identità». Una frecciata opportuna per tenere desta l’attenzione sul tema e i relativi investimenti. Non è che il dibattito sull’identità o i musei languisca, ma c’è nell’aria una coazione a ripetere identici schemi in contesti sempre più variegati. La novità rispetto al passato è che mentre prima l’ente pubblico rispondeva «a sportello» a richieste e progetti, ora rivendica orgogliosamente il ruolo del Principe, utilizzando funzioni di «indirizzo» che spesso lasciano perplessi. Questo pare ad esempio anche il caso del «Betile»: ecco che nell’idea progettuale per il museo del Mediterraneo si dice che il museo «dovrà costituirsi come luogo di produzione, ricerca e sperimentazione sulle relazioni tra arte nuragica e arti contemporanee». Quali siano i rapporti tra il nuragico e il contemporaneo non è chiaro, a meno che non si vogliano fornire patenti di autenticità a un’arte ancora da fare, e ivi da esporre.

Sulla “Nuova Sardegna” Gianni Olla e Massimo Onofri hanno recentemente scritto di Arcadia ed etno-chic. Forse ha ragione Olla a dire che dopo “Padre Padrone” «anche al cinema, non è stato più possibile raccontare l’Arcadia». Ma «quell’Arcadia che piace anche ai sardi, perlomeno la domenica, quando si va in gita e si mangia il porchetto arrosto» continua a vendere, e più di prima: quella che Onofri definisce «Sardegna da cartolina anticata, vellutino e pecore, matriarcato e vendette feroci» assicura posizioni da top-ten nei libri più venduti e prime-time in televisione, come nel caso di «Frontiera».
Chiamiamola acquiescenza ai desideri del cliente, attitudine che Gino Satta ha studiato nel poco letto «Turisti a Orgosolo», riferendosi alle modalità del «pranzo coi pastori» e dell’«ospitalità». Una lente che recentemente Sandro Roggio ha utilizzato per descrivere le vicende dell’abitare e del costruire in Sardegna nel suo «C’è di mezzo il mare».

Era proprio questo il meccanismo all’origine del kitsch: fornire a una classe di parvenu luoghi di conforto mentale e materiale che cicatrizzassero lo shock della fine di un mondo, della nostalgia di una totalità, della scissione fra individuo e realtà. I frantumi dell’impatto con la rivoluzione industriale e il romanticismo, incollati a mala pena in un assemblaggio da Wunderkammer. In questo senso ha ragione chi sostiene che dentro quel romanticismo ci siamo ancora, fino al collo. «Itte kitsch» conferma l’idea che dietro quel bric-a-brac se ne celi un altro, che permea le strutture profonde dell’essere sardi, alla perenne ricerca di un risarcimento garantito dal contemplare affascinati il proprio ombelico. Moneta ancora perfettamente in corso all’interno dei confini regionali.

Insomma, non è solo questione di «cattivo gusto». Dopo semiologi e specialisti è forse toccato a un romanziere suggerire sul kitsch le riflessioni più utili e semplici. «Il Kitsch – scrive Milan Kundera – fa spuntare una dietro l’altra due lacrime di commozione. La prima lacrima dice: Come sono belli i bambini che corrono sul prato! La seconda lacrima dice: Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato! È soltanto la seconda lacrima a fare del Kitsch il Kitsch». E altrove: «Prima di essere dimenticati, verremo trasformati in Kitsch. Il Kitsch è la stazione di passaggio tra l’essere e l’oblio». Magari dà un po’ di vertigini, ma che sia questa la definizione più corretta dell’identità sarda?

Il poster di Itte kitsch

Sante Maurizi
da Centro Studi Urbani

1 Commento a “Tra l’Arcadia e il kitsch, dalla Carlo Felice al West”

  1. Bastiana Madau scrive:

    A proposito del “poco letto” – ancora attuale – o inattuale? punti di vista… – libro di Gino Satta citato da Sante Maurizi, rinvio alla recensione a suo tempo pubblicata nel mensile diretto da Giacomo Mameli, Sardinews, che ancora trovi nell’archivio on line
    http://sardinews.it/6_01/13.html

    Uno stralcio:
    Turisti a Orgosolo. La Sardegna pastorale come attrazione turistica (Liguori, 2001) è il titolo del rapporto finale di una ricerca condotta sul campo a Orgosolo dall’antropologo Gino Satta, in tredici mesi a cavallo tra il ’95, il ’96 e con un’appendice nell’aprile del ’98. Il saggio propone un’analisi del turismo etnico, fenomeno che – come spiega l’autore nella prefazione – si presenta ai limiti dell’antropologia, una scienza che tradizionalmente privilegia ambiti di interazione e produzione umana dove tutto si presume sia ancora autentico, isolato e dunque esente da contaminazioni. In gioco qui sono invece i temi dell’interazione esterno (turisti) interno (nativi), così come si presentano nella concretezza dell’oggi. Satta ci racconta quindi dell’origine e dell’evoluzione della domanda turistica nelle zone dell’interno dell’isola a carattere pastorale, la risposta che a questa domanda danno i nativi, anche in rapporto a sé, alla propria identità, o al modo in cui la si percepisce nel momento in cui essa viene “organizzata” per esibirla all’altro in una sorta di autorappresentazione. E dove l’altro, nello specifico, è un consumatore mordi e fuggi che sostanzialmente fruisce di un set predisposto dai tour-operators locali, attraverso il pranzo con i pastori. In 224 pagine e otto capitoli si snodano situazioni diverse e tutte pertinenti al tema centrale: dalla descrizione di una giornata tipica nella ‘vera Sardegna’ – così come recitano anche i depliants istituzionali – luogo di vita dei pastori e di attrazione per turisti e antropologi, alla descrizione degli spuntini e pranzi con i pastori; dall’analisi della costruzione di un pranzo tipico a quella delle strategie dell’ospitalità; per concludere con un ultimo capitolo nel quale si analizza quello che Gino Satta, parafrasando Shopenhauer, chiama ‘il mondo dei pastori come rappresentazione’…” …

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