Tutta mia la città. La metropoli consumata

16 Ottobre 2007

LA METROPOLI CONSUMATA
M. Mad.

“La metropoli consumata. Antropologie, architetture, politiche, cittadinanze”, di Antonietta Mazzette ed Emanuele Sgroi (Franco Angeli ed.), arriva come opportuna e salutare riflessione sulla città ed il sistema di consumi ad essa indissolubilmente legato. Riflessioni categoriali, dicono gli autori, e non prescrittive: ad altri il compito, e che esso tenga conto dell’esistenza di categorie che ci aiutano a interpretare e collocare i fenomeni, a dar loro il nome corretto, ad educare e dividere il linguaggio e gli spazi.
Gli autori pongono quattro fondamentali domande, tenute opportunamente aperte: quale ruolo per il soggetto urbano? Quale armamentario culturale lo assiste nell’ordinarietà del vivere (solitario)? Che tipo di città (sia civitas che urbs) si prospetta in tale centralità del consumo? Quanto, questa città, può essere escludente?
Le nostre città fra modernità e contemporaneità sono nella sostanza viste come luoghi deputati al consumo; di spazio, tempo, merci varie; di produzioni immateriali attraverso categorie di appartenenza che vanno da una radice etnica al possesso collettivo di un logo particolarmente ambito, o di un oggetto, o di una frase alla moda, ciò che fa sentire partecipi di enclaves volta per volta configurate, di più enclaves in una sola volta.
Gli autori sottolineano molto l’aspetto del consumo, e il rapporto con la produzione; nelle città la produzione è sempre più immateriale, quella materiale sempre più spesso altrove. Ho provato a partecipare al libro, come un cittadino, ed il suo consumo mi ha coinvolto rimandandomi, a sua volta, immagini delle città viste e vissute: ad esempio alla socialità preda di un’epocale smarrimento che si ricompone in luoghi inediti, come un fiume, carsico e quindi continuo in quei suk di occidente che sono gli ipermercati; fra i carrelli scaffalature divisorie formano vie e crocicchi dove la gente si incontra e parla, con lo sfondo prospettico della fila alla cassa. Iniziano ad apparire le panchine, oggetti degni di una tesi e che mi sembrano modificati geneticamente se arrivano sino al posizionamento urbano – di recente anche a Sassari – lungo viali affollati di traffico e polveri sottili, che da lì potremo pienamente assorbire.
L’equilibrio fra produzione e consumo appare soprattutto un “equilibrio” fra consumo e produzione immateriale: la spinta all’acquisto e all’impossessamento dei nuovi simboli della cittadinanza, smarrita la capacità di mettere in discussione l’ideologia della produzione e la natura delle merci, diventa essenziale.
Altro punto, fra i tanti di grande interesse, che vorrei toccare è l’analisi del consumo urbano che si configura nello spazio culturale e nei servizi legati al tempo libero: importanti sono i paragrafi che parlano del centro storico, delle architetture pregiate e dei contesti. Dei musei e delle mostre. Anche in questo caso assistiamo alla prevalenza dell’aspetto mercantile su quello culturale, dei valori di scambio su quelli d’uso. Ma proprio questi, come avvertono le sensibilità più aggiornate dell’economia dei beni culturali, sono a fondamento di un loro solido e duraturo ‘uso economico’.
La verità è che si forma talora, e mi pare in crescita, una sorta di patois un po’ onanistico composto da arte, artigianato, alimentazione e tradizioni che ogni assessore che si rispetti ormai ripete a memoria. Per darti una permanenza e un’emozione, magari in una sola notte, come in un film. Un consumo più o meno uguale dappertutto: sempre diverso, sempre lo stesso. Ma il lavoro, che fine ha fatto?
Mazzette e Sgroi citano, in Cittadinanza e consumi, i commenti di Mario Monti e Giampaolo Fabris che avrebbero ricordato alla sinistra che nella città non sarebbe più il lavoro a dare identità sociale. Grazie, da sinistra, della lezione: ma questo mi sembra uno dei capolavori del capitalismo post-fordista, che per la verità indicherebbe la perdita dei nessi della centralità del lavoro, mai in realtà periferico nella vita reale. Dovremo da sinistra accettare la nuova realtà, come dicono questi medi progressisti reazionari, oppure ritrovare quei nessi nelle forme attuali e capire il perché del loro smarrimento/occultamento?
La necessità di identificarsi ed esistere attraverso il consumo nasconde in maniera prodigiosa il fatto che il lavoro sia oggettivato e intoccabile (nelle sue scelte e nella sua precarietà); ma è anche vero, per dirla con Maurice Godelier, che è l’ideale che costituisce il materiale, avocando a sé in maniera plastica proprietà e organizzazione dei mezzi di produzione, consegnandoci agli scenari della ‘Società dello spettacolo’ (capita da tempo di domandarsi se non si stia riproponendo in qualche modo un aggiornamento del ‘Panem et circenses’ della Roma imperiale).
Eppur si muovono, sotto il tentativo dei nuovi maieuti della governance di consolidare tra professionisti istituzionali, tecnici dello spazio urbano e mediatori culturali, seri fattori di instabilità: fra le fila di chi non può accedere al consumo, non pochi; di chi non ne ama i prodotti, e organizza, dal basso, il ‘consumo critico’; di chi lo costruisce regalando la sua forza lavoro cognitiva per utili che vanno in tasca ad altri.
Il luddismo antiurbano (l’inimicizia civica della post-modernità, come viene lucidamente scritto) di chi vegeta ai margini e nelle pieghe delle metropoli, non sempre disposto ad amare il consumo passivo può dar conto, con improvvise risorgenze, della turbolenza sismica della falda, ampia. E soprattutto le tracce di sempre più prevalenti forme di lavoro basate sul capitale cognitivo e la circolazione dei saperi, verso il progressivo riconoscimento della quota di lavoro non riconosciuto e l’insopprimibile diritto all’esistenza (e intanto al suo reddito). Non so se ciò riequilibrerà il rapporto fra produzione e consumo, ma la critica alla scarsa qualità urbana è in movimento.
E’ fondamentale disegnare città belle e inclusive, come ricordano spesso gli autori; per l’architettura non perdere le sue archai, creare spazi per l’incontro, il gioco, per la cultura, l’inclusione, la salute, etc. Ma credo che senza modificare la natura della produzione e l’accesso ai prodotti non potremo trasformare le città; che solo coinvolgendo in una passione progettuale vera i cittadini le città saranno meno estranee.
Queste, a braccio, alcune delle suggestioni portate dal pregevolissimo lavoro, di Mazzette e Sgroi, e alcuni dei punti rilevanti del testo. Il loro accompagnarci alle leggi della città da consumare (niente paura, non è la ‘Milano da bere’) viene in un momento assai appropriato, dove le coordinate teoriche e di metodo, una volta disegnate, ci possono aiutare a migliorare i nostri percorsi urbani, assistendoci con una delle più lucide guide al consumo critico che sia dato di reperire.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI