Un purgatorio per asilo. La Cimade

1 Maggio 2010

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Pierluigi Carta

Figura emblematica della “era delle catastrofi”, inaugurata nel 1914, il migrante forzato non è stato relegato nei libri di storia, come atteso, dopo la caduta del muro di Berlino. Dall’esodo disperato dei rifugiati ruandesi che fuggivano verso il Congo nel 1994 allo spettaccolo delle file interminabili di vetture che lasciavano New Orleans nel 2005.
Determinarne lo statuto e il numero diventa sempre più complicato, ma l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha proposto una distinzione tipologica: i rifugiati obbligati a lasciare il loro paese d’origine per fuggire ad una persecuzione o ad una situazione di violenza in generale –attorno ai 16 milioni. 26 milioni le persone forzate allo spostamento all’interno dello stesso paese, e infine milioni di persone costrette all’esodo a causa di disastri naturali. Nel mondo si contano oggi circa 67 milioni di persone sradicate forzosamente.
Mi son recato alla sede nantese della Cimade proprio per incontrare due esponenti tra quei 67 milioni, avevo organizzato un’intervista con loro a tarda mattina, ed è così che entro nel mondo del Comité inter-mouvements auprès des évacués. Resto fuori due minuti dato il mio anticipo e presto mi fermano due zingari di Bukarest, mi parlano in rumeno, non capisco una parola e si scusano in francese perché mi avevano scambiato per un loro connazionale. Il più vecchio é una persona molto sveglia, un corto sigaro in bocca, un dente d’oro, tre mancanti, orecchie sporgenti e baffetto ingiallito, ha vissuto in 20 paesi dell’Europa, e in cinque minuti fa in tempo a parlarmi in rumeno, francese, italiano, spagnolo, portoghese e ucraino; l’inglese non gli piace, dice che non ha nulla di umano.
Durante quei pochi minuti osservo il via vai multiculturale che mi si profila davanti: decine di nazionalità di tutto il mondo, ma li si contraddistingue bene: gente che si nota poco, vestiti semplici e vecchi, facce stanche e preoccupate, mani callose e pantaloni spesso macchiati di olio e calce, sono tutti immigrati che postulano consulenza legale per ottenere un prolungamento del visto, una scappatoia per non rientrare nel centro di retenzione più vicino –a Rennes- per ottenere l’indennità dell’AIDA, per usufruire della copertura sanitaria.
Entro nel locale fumoso della Cimade, la quale si presenta come una delle tante associazioni solidali, qualche poster alle pareti di un bambino nero, la Striscia di Gaza ben in evidenza e una sottile nube di fumo che impregna le pareti e fa sembrare più acri tutte le espressioni dei collaboratori, che al contrario di molte altre associazioni, lavorano ad un ritmo frenetico intervallato solo dalle sigarette e dagli squilli del telefono. Incontro Mikaёl Garreau, il presidente della sezione nantese, un uomo rasato e con un sorriso ghignante, jeans attillati e tatuaggi nelle braccia; mi sembra un ex nazista, ma le sue parole mi contraddicono e mi rassicurano, mi parla dell’associazione e della sua storia -La Cimade è nata nel 1939 nell’Alsazia-Lorena, quando durante la deportazione degli ebrei in dei campi al sud della Francia, delle donne protestanti riuscirono a ottenere il permesso di entrare all’interno, per denunciare poi la situazione e le condizioni dei deportati. Queste signore hanno avuto il merito di mobilitare la popolazione locale per organizzare una rete che permettesse la fuga dei detenuti. Da quel momento ci siamo sempre battuti contro le politiche di privazione della libertà- Garrou parla lentamente, forse teme che non capisca il francese, o forse perché è distratto da una discussione animata nell’altra sala tra due persone di cui non percepisco l’origine.
-La nostra vocazione si è estesa verso l’aiuto generalizzato ai gruppi in movimento, sia migranti che rifugiati, quindi affrontiamo quotidianamente i problemi di parecchie nazionalità, e di questi tempi i flussi maggiori con i quail abbiamo a che fare provengono dall’Europa dell’est, dal Medio Oriente e dal Nord Africa; i secondari provengono dall’America Latina, dai Caraibi e dal Sudest Asia. Comunque sia insieme alla FASTI –Federazione delle associazioni di sostegno ai lavoratori immigrati- siamo i più attivi nell’aiuto ai sans-papier.
Io gli dico che Nantes mi pare una buona eccezione per le politiche di integrazione dei migranti, e lui mi fa sapere che il merito non è della Giunta ma della Prefettura, che ha sviluppato un’efficace amministrazione per la produzione di documenti e per la sistemazione nelle locazioni comunali, ma aggiunge che non mi devo fare ingannare dalle apparenze, perché Nantes è pulita, ma i senzatetto e i disperati ci sono comunque, solamente che non hanno la possibilità di farsi vedere. Io gli parlo delle condizioni dei Centri di Retenzione italiani, gli parlo di Rosarno e di Lampedusa, lui sa già tutto e mi conferma i miei sospetti –i Centri di Retenzione francesi sono in ottime condizioni, il cibo è di qualità, ricevono cambi di vestiti regolari, hanno diversi spazi dedicati all’infanzia e un reparto maternità provvisto di scalda biberon- ma conclude con disgusto –questa è la peggior tattica per rendere disumana la situazione, perché se si rende una cosa come questa accettabile agli occhi dell’opinione pubblica, si rende impossibile la sua eliminazione, e per noi, i Centri di Retenzione sono una macchina inumana degna solo di essere smantellata- gli comunico che condivido.
Mi racconta che i Centri di Retenzione in Francia esistono già dal 1984, e sono seminati un po’ dappertutto. Fino al 1973 i migranti più numerosi erano gli Italiani, Spagnoli, Algerini, Marocchini e i Tunisini. L’esigenza di manodopera era stringente, sia per la ricostruzione del dopo guerra che per l’espansione dei “Trenta Gloriosi”, la grande crescita economica industriale che investì la Francia dal 1956. Fino al 1968 il primato andava agli italiani, succeduti poi dagli spagnoli, per lasciare il posto al brutale arrivo dei portoghesi -750 000 nel 1975. Gli algerini però costituirono un caso a parte, perché ottennero il titolo di cittadini già nel 1947 –i Francesi musulmani di Algeria, FMA- con il diritto di circolare senza restrizioni, cosa che permise per circa trent’anni di evitare la migrazione fissa ma il facile spostamento a scopo lavorativo. Ma nel 1974, durante il primo shck petrolifero, il governo francese iniziò a produrre schiere di sans-papier, bloccando le procedure dei permessi e inaugurando la stagione dei rimpatri senza il supporto di un quadro legislativo.
-È stata una delle avvisaglie esplicative della politica di Shengen, la distinzione tra migranti europei e non-europei ormai è netta, e il trattato non ha fatto altro che porre tra l’Europa e il resto del mondo le frontiere che esistevano già tra la Francia e i suoi stranieri. Il risultato è una società sempre più xenophoba che brama l’applicazione di misure sempre più restrittive e protezionistiche. Senza dimenticare che i primi Centri francesi sono stati inaugurati dagli stessi socialisti con Mitterand al potere. Da lì in poi la società ghettizzante ha preso il sopravvento, e le rivolte della Banlieu parigina del 2005 sono state solo un pallido tentativo di pubblicizzare le pecche di uno stato sociale sempre più indifferente nei confronti della popolazione di serie B.
Terminiamo l’intervista, lo ringrazio e lo lascio alla sua associazione, col loro ruolo di “vigile e mediatore tra la popolazione migrante e le istituzioni”, che il governo stesso aveva affidato all’associazione tempo fa, ma senza mezzi a disposizione, soli dentro quel mare di 67 milioni di persone.

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