Le regole dell’aragosta

1 Luglio 2007

Gianluca Scroccu

Considera un’aragosta e pensa che una Sardegna migliore può nascere anche da un semplice crostaceo. Mi è venuto da pensarlo dopo una bella chiacchierata con Gianni Usai, già meccanico manutentore alla Fiat, dirigente della Fiom a Torino (mai distaccato dal lavoro, ci tiene a precisarlo), dove vive in prima persona le stagioni degli scioperi e dell’autunno caldo, quelle delle lotte davanti ai cancelli di Mirafiori: anni duri, di impegno e di lotta a cui però si sovrappone la brutta pagina del terrorismo delle Brigate Rosse, che arriva ad uccidere barbaramente Guido Rossa, un operaio e un sindacalista come lui. E allora, nel 1980, Gianni sente il bisogna di tornare in Sardegna, nel Sinis, e di dare una svolta alla sua vita. E diventare pescatore insieme a dei ragazzi con cui costruisce una cooperativa, frutto di uno scambio alla pari: loro gli insegnano il mestiere, lui sfrutta i suoi strumenti politico-culturali e sindacali che permettono di partire da un minimo di organizzazione.
I pescatori, in quel periodo, sono in balia di grossisti senza scrupoli, che dettano le regole e si assicurano lucrosi profitti. Un po’ come i feudatari degli stagni di Cabras descritti con straordinaria forza da Peppino Fiori in “Baroni in Laguna”. Fare una cooperativa, racconta Gianni, significa investire e mettersi in gioco, specie quando si parte praticamente da zero: bisogna edificare i locali, comprare le celle frigo, allestire i vivai delle aragoste. E serve soprattutto la volontà di non accontentarti del quotidiano, ma la consapevolezza che per conquistarti un pezzo in questo mondo devi saper guardare al futuro. Nasce così un progetto di ripopolamento delle aragoste a partire da una collaborazione pluriennale con il Dipartimento di Biologia Marina dell’Università di Cagliari. Il pescatore deve essere predatore (altrimenti non prende pesci), ma anche allevatore, o il mare si saccheggia e tutto viene depauperato. E infatti se sino all’85 si catturavano anche 11-12 tonnellate di aragoste, ora si è scesi sui 600 Kg – una tonnellata. I danni maggiori erano creati dal fatto che si prelevava troppo rispetto a quello che il mare consentiva con i suoi normali cicli biologici; specie lo strascico illegale, ma anche la pesca artigianale mal concepita, producevano e producono i danni maggiori.
Serviva evidentemente un drastico cambiamento culturale, cercando di far crescere, a partire dai pescatori, una cultura da allevatori. È questo il significato del progetto messo in piedi insieme ai biologi dell’università del capoluogo: le aragoste sotto taglia invece di essere immesse sul mercato si ricollocano, una volta marcate, in un angolo di mare dove la Regione ha autorizzato il divieto di pesca. Un progetto che ha dato risultati; se fai fare alla natura il suo dovere, infatti, il mare si riprende e mette a disposizione dell’uomo le sue grandi risorse.
Progetti che hanno bisogno di finanziamenti; la Regione, sul piano politico, si è sempre detta entusiasta ma il riformismo dall’alto tende ad incepparsi di fronte all’inadeguatezza della macchina amministrativa e burocratica. Mi vengono in mente certi documenti d’archivio che ho visionato durante le mie ricerche sul primo centro-sinistra, quello di Moro e Nenni: anche allora si diceva che uno può ipotizzare le riforme migliori, ma se chi deve curarle e accompagnarne la realizzazione dal punto di vista amministrativo non è in grado o non ha la necessaria umiltà si finisce per cadere in una terra di nessuno dove, alla fine, predomina la disillusione.
Non è solo un ritardo della politica, sia ben chiaro: esiste anche un freno culturale dell’opinione pubblica che considera il mare come una bellezza o una mera risorsa turistica, rifiutandosi così di guardare a cosa c’è in profondità. Un evidente paradosso, per un’isola come la Sardegna.
Certo, come mi dice Gianni, la normativa sulla salvaguardia del mare è molto avanzata, quindi sul piano legislativo non ci sono problemi. Il punto è far sì che le leggi vengano rispettate: una “salvamare” insieme alla “salvacoste”?
C’è un gran parlare dei ritardi della sinistra sulla legalità e il bisogno di sicurezza; ma forse anche questa vicenda permette di capire quanto sia necessario osservare le normative quando è a rischio l’interesse collettivo, visto che il mare è di tutti.
Anche perché, nonostante tutto, la qualità delle acque sarde è ancora ottima, come dimostra l’esperienza delle aragoste di “Su Pallosu”, che in un habitat tranquillo si riproducono con prolifici ritmi; tutto questo palesa come si debba affermare una nuova etica della responsabilità anche nei riguardi del mare e del suo utilizzo responsabile. Ecco perché sarebbe utile una macchina burocratica adatta ai compiti e specializzata, capace di avere un contatto continuo e stabile con i lavoratori della pesca, su una dimensione orizzontale e con funzionari regionali sui territori che sappiano applicare le leggi (i distretti di pesca potrebbero favorire modalità di lavoro più lungimiranti).
L’esempio della partnership con il Dipartimento di Biologia Marina dell’Università di Cagliari è strategico: costa poco, garantisce una collaborazione feconda con il mondo del lavoro che ha bisogno di informazione e formazione continua e in più svolge una importante funzione di controllo sul rispetto del progetto da parte dei pescatori stessi.
Del resto è quello che dice anche Stiglitz nei suoi libri sulla necessità di costruire una globalizzazione democratica che funzioni a partire dalla ridefinizione delle modalità con cui vengono messe in agenda le priorità e applicate le regole. La pesca non è una cenerentola, ma una risorsa che crea e conserva posti di lavoro: proviamo anche in Sardegna a mettere la persona al centro dello sviluppo, rendendola responsabile e rispettosa delle regole. Le aragoste saranno contente.

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