Vuoti a perdere

1 Settembre 2009

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Manuela Scroccu

Habeton, 17 anni, è un sopravvissuto. E’ partito il 28 luglio da Tripoli insieme ad altre 78 persone a bordo di un gommone che non avrebbe dovuto esistere, perché la lungimirante politica del governo, osannata dallo stesso ministro dell’Interno Maroni durante la rituale conferenza stampa estiva, aveva appena finito di celebrare in pompa magna la vittoria della linea dura nella guerra agli sbarchi di clandestini, ormai destinati a diventare un ricordo legato a governi mollaccioni e finto-buonisti. Quando la guardia di finanza italiana ha intercettato il gommone, a dodici miglia da Lampedusa, erano rimasti soltanto in cinque, tra cui una donna e due ragazzi minorenni. Sembravano fantasmi, hanno dichiarato i soccorritori, completamente disidrati, con lo sguardo vitreo e assente. Il racconto che, nonostante le loro precarie condizioni di salute, riescono a fare ai volontari che per primi si sono presi cura di loro, è agghiacciante. Il primo a parlare con l’ausilio di un interprete è anche l’unico di cui i giornali riportano il nome. Habeton, giovane ragazzo eritreo, racconta che,  dopo una settimana di navigazione, lui e i suoi compagni di viaggio hanno terminato cibo, acqua e benzina mentre i cellulari si sono scaricati. Il gommone sul quale si erano imbarcati, ormai ingovernabile, è andato così alla deriva in balia dei venti e delle correnti. Durante la traversata i migranti avrebbero incrociato almeno dieci imbarcazioni, nessuna li ha tratti in salvo. Soltanto un peschereccio, probabilmente maltese, si sarebbe fermato gettando ai supersiti un po’ di cibo e acqua. Settantotto esseri umani hanno vagato nel Mediterraneo, per oltre 20 giorni, senza che nessuna imbarcazione li abbia soccorsi,  come vuoti a perdere. Settantaquattro persone, forse ottanta, sono tutte morte di fame e di sete nel tentativo di raggiungere il suolo italiano. I loro corpi sono stati gettati in mare dai compagni sopravvissuti che avevano assistito alla loro agonia senza poter fare niente. L’orrore, un abominio intollerabile per tutte le coscienze democratiche che avrebbe perlomeno potuto segnare l’inizio di una reale presa di coscienza sui veri risultati delle politiche italiane in tema di immigrazione. Invece questa tragedia ha scalfito di poco la sonnacchiosa Italia agostana. Il Ministro dell’Interno Maroni non ha pensato di spendere neanche una parola di cordoglio  per quei morti e il loro familiari. La sua prima attività è stata quella di richiedere una relazione al Prefetto di Agrigento, per sapere come si sono svolti i fatti “perché la vicenda presenta aspetti da chiarire e la versione fornita dai migranti è da verificare in quanto stanno emergendo elementi che contrastano con quanto riportato dai superstiti”. Ma il Prefetto di Agrigento non era sul quel gommone, Habeton era su quel gommone. Chieda a lui, il Ministro Maroni, cosa vuol dire vagare per il Mediterraneo per venti giorni senza cibo né acqua. Si sarebbe chiarito i tanti dubbi su un racconto che per il Viminale continua ad essere, nonostante l’evidenza, alquanto lacunoso. Per il governo erano clandestini, così come per la stampa e l’opinione pubblica. Entità giuridiche senza diritti, perché attraversano le nostre frontiere senza un documento che ne autorizzi l’ingresso. Dall’otto agosto, inoltre, l’equiparazione tra “clandestino” e “delinquente” è sancita da una legge dello Stato italiano con l’introduzione di una sanzione penale per coloro che entrano nel nostro paese senza un documento valido di soggiorno.  Irrigidire il sistema giuridico e militarizzare le frontiere significa accettare la possibilità che chi cerca comunque di arrivare sul suolo italiano via mare sia speronato, non sia soccorso, muoia di stenti, oppure sia respinto in paesi come la Libia, denunciati per le torture e le violazioni di diritti umani. Tutto questo significa che questa è solo una delle tante tragedie del mare, e non sarà l’ultima. Le immagini dei cadaveri, i racconti dei superstiti attraverso i quali si tramandano le storie di chi non ce l’ha fatta  ed è stato risucchiato dal mare, saranno solo gli effetti collaterali di una strategia politica che da un lato cavalca la retorica della linea dura sui respingimenti e i controlli alle frontiere e, dall’altro, costruisce un sistema basato sulla riduzione all’invisibilità del migrante irregolare, carne fresca da sfruttare sul mercato del lavoro nero, perché i clandestini sono le braccia che raccolgono i nostri pomodori e le mani che impastano il cemento nei nostri cantieri. Rimane un’ultima domanda. Quando arrivano già morti sulle nostre coste e nel nostro mare, come i compagni di Habeton che non sono sopravvissuti, allora, come li dobbiamo definire? Non hanno attraversato nessuna frontiera, la morte gli ha impedito di trasformarsi in quell’entità giuridica negativa che è il clandestino. Potremmo chiamarli, finalmente, esseri umani?
Manuela Scroccu

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