Equità sempre più lontana

16 Giugno 2012

Mariano Carboni

Per circa due decenni, in tutte le nostre elaborazioni, abbiamo denunciato i pericoli derivanti dalla finanziarizzazione dell’economia. Abbiamo sostenuto che un paese come l’Italia, a forte vocazione manifatturiera, non poteva perdere il contatto con la produzione dei beni reali, doveva investire in ricerca scientifica ed innovazione tecnologica per evitare le difficoltà derivanti dalla competizione sui costi, messa in atto dai paesi emergenti, e dalla globalizzazione di ritorno. Abbiamo contestato la pochezza di tanti imprenditori disinvolti che avevano deciso di produrre in Cina e nel Sud Est Asiatico, trasferendo in quei paesi tecnologia e conoscenze di processo, per poi commercializzare il prodotto finito nei paesi occidentali, incamerando ricariche esorbitanti e guadagni favolosi. Avevamo capito quanto fosse pericoloso il processo di delocalizzazione di talune attività. Fossimo semplicisti, diremo di essere stati lungimiranti, ma questo, di per sé, non ci aiuta a venire fuori dalle difficoltà in cui ci troviamo. Voglio riflettere su un punto perché penso che il comportamento del grande capitale e l’avidità dell’alta finanza rischiano di produrre sconquassi irreparabili. A mio modesto avviso non si è ancora imparata la lezione! Ci viene detto e ripetuto che l’Italia rischia il fallimento a causa di un debito pubblico che ha raggiunto livelli insostenibili. Ci parlano quotidianamente dello Spread. Ci dicono che siamo in bilico, che dobbiamo pagare più tasse, perché dobbiamo salvare il paese e perché abbiamo bisogno di rassicurare gli investitori stranieri che devono acquistare i titoli del nostro debito pubblico. Continuano a ripeterci che dobbiamo fare i sacrifici, che vuol dire: pagare l’imu; l’irpef; l’iva; le accise sui carburanti; non avere il rinnovo dei contratti nazionali ed il riconoscimento dei diritti; rinunciare ad una parte dello stato sociale; erodere i risparmi di una vita; per evitare il tracollo dell’Italia. Ma in tutto questo chi ci guadagna? Cosa ci rimane? Qual è il ritorno per la gente comune e per l’alta finanza? La risposta è semplice! La gente comune deve provare a salvare un po’ di dignità e deve rassegnarsi ad una condizione di vita notevolmente peggiore di quella conosciuta negli anni della prima repubblica. I vantaggi sono tutti a favore dell’alta finanza e dei grandi capitali europei. Il paradosso è che la categoria sociale che si è arricchita grazie alle speculazioni finanziarie, destabilizzando il pianeta, continua ad arricchirsi, speculando sulla condizione di emergenza dei paesi in difficoltà. Noi comuni mortali dobbiamo “essere responsabili” e pagare miliardi di euro di nuove tasse per sostenere gli interessi sul debito pubblico italiano. In buona sostanza, i grandi luminari europei si sono inventati una tassa patrimoniale al contrario che sottrae ai poveri per dare ai ricchi, che peggiora le condizioni di vita di milioni di persone a vantaggio di una cerchia ristretta di speculatori finanziari. I dati sulla ricchezza diffusa del nostro paese sono emblematici e non lasciano dubbi. Si è rimesso in moto un pericoloso processo di accumulazione a vantaggio dei ceti più abbienti. È aumentato il divario tra ricchi e poveri e si contrae il valore del risparmio delle categorie sociali più deboli. Possiamo rimanere impassibili di fronte ad una simile tendenza? Ma soprattutto, l’allargamento di questo divario è l’unica strada percorribile per evitare il fallimento dell’Italia e dell’esperienza comunitaria? Io penso di no! Il contrario! È questo divario che può produrre il tracollo dell’Europa e dell’Euro. È questo divario che non consente la ripresa economica. Ecco perché serve la politica, intesa come la massima espressione di competenza e capacità di orientamento, e non si può fare a meno dell’equità e della solidarietà. Mi permetto di ricordare a tutti i soggetti che si abbandonano, con faciloneria, alla pratica della demagogia e che soffiano sul fuoco delle contrapposizioni europee, che la comunità economica è nata a seguito di due conflitti mondiali, sviluppatisi in Europa per ragioni prettamente economiche. Per questa ragione io non credo che in Germania si possano dormire sonni tranquilli sé dovesse saltare l’euro e sé si dovesse mettere a rischio la coesione della Grecia, della Spagna, del Portogallo e dell’Italia. Credo che l’opinione pubblica tedesca sappia, senza bisogno di sottolineature, che l’economia della Germania è strettamente legata ai paesi dell’area euro che si trovano oggi in difficoltà. Naturalmente non dobbiamo pensare esclusivamente a quello che devono fare gli altri, i tedeschi in primis . Per quanto ci riguarda dobbiamo partire dal “lavoro vero”, quello oggettivo che si tocca con mano. Gli italiani hanno sempre dimostrato di avere una straordinaria capacità di reazione. Provo un’ammirazione smisurata per quello che hanno fatto i nostri nonni. Hanno ricostruito i valori sociali e l’economia di un paese distrutto dalle bombe del fascismo e del nazismo, durante la 2° guerra mondiale. Bisogna ripartire dall’insegnamento che ci hanno dato quei lavoratori dipendenti! D’altro canto, i lavoratori dipendenti ed i pensionati hanno sempre dimostrato la loro generosità e non hanno mai rifiutato i sacrifici. Pretendono, giustamente, dai loro governanti, il massimo della serietà, dell’onesta e della trasparenza, sapendo che spetta a loro, per primi, dare il buon esempio. Ecco perché serve l’equità e non si accettano le patrimoniali al contrario che massacrano la povera gente, consolidano il processo di concentramento delle ricchezze, inclinano la coesione sociale, mettono in pericolo l’autorevolezza delle istituzioni e la tenuta democratica del paese.

1 Commento a “Equità sempre più lontana”

  1. Nora Panorgios scrive:

    A me sembra che la finanziarizzazione (necessariamente di stampo e finalità anglosassoni) è soltanto una parte di una guerra economica contro la UE. Un’altra scena di questa guerra si apre per esempio sul portale di http://www.importgenius.com/.

    Bisogna studiare a fondo e capire le conseguenze per tutti quelli imprenditori manufatturieri tipici per l’economia italiana e tedesca che “avevano deciso di produrre in Cina e nel Sud Est Asiatico, trasferendo in quei paesi tecnologia e conoscenze di processo, per poi commercializzare il prodotto finito nei paesi occidentali”. Molti non hanno ancora capito che i loro partners in cina sono tra i clienti più vogliosi di portali come questo. Per quanto so, la UE non ha mai presentato ricorsi contro la prassi US-americana di pubblicare tutti i dati della US Customs Office.

    Come detto: solo un’altro aspetto.

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