il Manifesto e la scacchiera

16 Ottobre 2010

madau

Marcello Madau

Non mi piace l’aria che si sta componendo attorno alle sorti del quotidiano “il Manifesto”, al quale sono e siamo legati non solo per l’origine dei promotori dell’Associazione Luigi Pintor e del ‘Manifesto Sardo’, ma per un senso di appartenenza ben più ampio delle origini stesse.
Le crisi – in particolare in questi ultimi anni – sono ormai una costante, sempre più forte; le risposte in difesa del giornale – volta per volta importantissime – non riescono a togliere dallo schermo che appartiene a un numero crescente di compagni, la proiezione della lunga partita a scacchi del ‘Settimo sigillo’ fra Antonius Block e la Morte.
Il fatto che le difficoltà – e lo scoramento – crescano si lega strettamente alla non incoraggiante crisi della tradizione di sinistra nel nostro paese, assieme alla serie di azioni liberticide e strangolamenti economici operati dalla destra al potere, e comunque da chi non ama quell’autonomia e irriverenza incorreggibile che viene universalmente riconosciuta alla nostra esperienza.
E’ in tale dimensione che mi sembra opportuno discutere di prospettiva, restituendo alla storia del cinema (e degli scongiuri) la metafora bergmaniana, e ingannando il nero signore non con una mossa particolare del cavallo o della regina, ma, se necessario, cambiando il campo di gioco. Ovviamente dico questo partendo dal presupposto, e dalla speranza, che si sia in molti a voler continuare, nelle forme che sapremo costruire, l’esperienza del ‘Manifesto’.
Mentre raccogliamo e rimandiamo ulteriormente l’appello alla sottoscrizione militante ed in particolare agli abbonamenti che, ricordiamo ancora, per le isole sono molto vantaggiosi, ricordando anche l’ultima iniziativa del ‘Manifesto del giorno prima’,  vorrei andare ben oltre a quello che rischia di apparire, se non di essere, un rituale, e discutere costruttivamente su scenari e piani futuri, magari con qualche riflessione su ciò che non ha funzionato bene o potrebbe funzionare meglio, e diversamente.
In primo luogo, non credo che, nello sciagurato caso che si dovesse verificare la chiusura del quotidiano, ciò debba significare necessariamente la chiusura dell’esperienza ‘Manifesto’.
Nelle discussioni e negli scambi di idee fra ‘centro e periferia’ abbiamo condiviso l’idea di mantenere un supporto cartaceo (magari mensile),  e soprattutto  di potenziare il sito web, migliorando le ‘dinamiche di rete’ alle quali faceva cenno Loris Campetti. Sarebbe aupsicabile che ad esse e ad un web potenziato non arrivassimo diluenndo la capacità di elaborazione e critica politica in direzione di un eclettismo progressista che ci farebbe perdere storia, pur dinamicamente intesa, e ‘riconoscibilità’, smarrire quel  target (anche ovviamente come ‘prodotto editoriale’) affermato, quel punto di vista radicalmente di sinistra, in tutte le sue declinazioni (qualcuno dice ormai, con qualche noia, anche quella comunista: io preferisco dire anche quelle non comuniste). Punto assolutamente importante per l’attuale momento storico, per i destini di una sinistra e di una democrazia non schiacciati necessariamente sul capitalismo.
E’ questo target che specifica la ‘nicchia’ e l’empatia manifesto-lettori alla quale si riferisce (leggete l’interessantissima intervista cliccando qua di seguito sul suo nome) Joichi Ito elogiando ‘Il Manifesto’. Che non ce la fa, magari, a sostenere un’impresa costosa come un quotidiano cartaceo (un lusso come mi diceva anche ieri Sante Maurizi), ma che nello stesso tempo rappresenta una risorsa straordinaria di popolo, di passione, di intelligenza e competenze per continuare in altre forme la nostra avventura politica e culturale.
Ancora: oggi si parla molto di identità, e io penso che sia da migliorare un assetto identitario che mi ha sempre molto colpito, quello della dimensione territoriale. Nell’organizzazione delle dinamiche di rete evocate da Loris Campetti  dovremo lavorare molto: la rete esiste ma va connessa. Qua i margini di miglioramento sono molti. A volte abbiamo avuto la percezione di una maniera  un po’ autoreferenziale di lavorare, una visione magari illuminata ma un po’ centralista della Sardegna, talora con animo da viaggiatore dell’Ottocento, persino – come nella valutazione di qualche esperienza del centro-sinistra –  pronto a stupori eccessivi.
Diciamo che i famosi ‘occhiali’ per leggere i territori potrebbero funzionare meglio, se ci riusciamo,  come soggetto collettivo che come le  lenti più o meno individuali dei ‘corrispondenti’. I territori non sono una pagina possibile, ma  riferimenti soggettivi essenziali della nostra pratica democratica.
Il manifesto sardo, cosa di per sé non scontata tout court, ma frutto di una relazione reciproca condivisa, è disponibile da tempo, speriamo assieme a numerose esperienze italiane e con una particolare attenzione per quelle meridionali, a rappresentare uno degli elementi della rete territoriale auspicata da Loris.  Proprio la rilettura critica di una migliore democrazia territoriale può essere un nostro campo di elaborazione, che peraltro stiamo cercando continuamente di porre al centro della discussione.
Sono assai convinto che una rete condivisa e perciò una maggiore appartenenza rendano più efficace la sua difesa: come nelle migliori tradizioni operaie, è utile non dare acquisito in sé il prodotto, ma discuterne criticamente la sua stessa natura e la sua collocazione fra produzione e consumo.
Ma vorrei concludere invitando a non trascurare come il tema del lavoro all’interno del Manifesto sia una priorità, e che, abituati a vedere i carissimi compagni con animo e simpatia militante, non sempre cogliamo. Come faremo a difendere, nel caso a riqualificare,  i posti di lavoro dell’impresa ‘il manifesto’?
Gli ‘operai’ di questa impresa devono essere sostenuti, ed il loro diritto al salario va assieme alla libertà di resoconto della realtà e di costruzione delle idee del ‘prodotto’.

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