Bolivia: sulle tracce del Che

1 Febbraio 2013
Emilia Giorgetti
Sucre è la città bianca. Il centro coloniale è adagiato su alcune colline all’ombra della Cordillera de los Frailes, un’imponente catena di montagne frastagliate dove, in occasione di un tumulto antispagnolo, i frati francescani della città si rifugiarono con i loro tesori di argento. La mancanza di cibo e il freddo delle notti di alta quota non risparmiarono nessuno di loro e si racconta che ancora oggi può capitare, esplorando le pieghe disabitate di queste montagne, di imbattersi in una grotta che conserva i resti di un frate adagiato accanto a un tesoro di metallo prezioso. E’ da uno di questi picchi impervi che nel 1781 il capo della ribellione, Tomás Catari, fu gettato nel vuoto con le mani e i piedi legati. Ed è tra queste valli profonde che, 50 anni più tardi, l’eroina dell’Indipendenza, Doña Juana Azurduy de Padilla, organizzò la guerriglia contro la corona spagnola, a sostegno delle campagne vittoriose di Simón Bolivar e del Maresciallo Sucre, i padri fondatori della nazione boliviana.
La tortuosa strada sterrata proveniente da La Paz costeggia queste terre dal passato ribelle e sfiora i territori dei Jalq’a, la popolazione di origine quechua che solo da un paio di anni è stata raggiunta dalle prime piste sterrate e dalla luce elettrica. Adesso Doña Ángela Aguilar, la depositaria dei segreti dell’antica tecnica di lavorazione dei tessuti rosso e neri con figure stilizzate di animali e demoni, può accogliere i rari visitatori nella sua modesta abitazione di adobe, all’ombra della collina che ospita gli spiriti degli antenati e a distanza di sicurezza dalla “gola del diavolo”, un antro misterioso fino al quale nessun membro della comunità osa avventurarsi e che ospita lo spirito del male.
Nel suo lento snodarsi verso il Trópico, la strada costeggia lembi di foresta pluviale e poi spinosi paesaggi semidesertici, fino a raggiungere il Rio Grande che, prima di gettarsi nel Rio delle Amazzoni, marca il confine tra i territori fedeli al Presidente Morales e la regione indipendentista di Santa Cruz, tradizionalmente in mano ai grandi latifondisti e, oggi, dominata dal narcotraffico. I contadini del luogo raccontano che, poco tempo fa, la misteriosa moria di animali nelle vicinanze di un corso d’acqua ha portato alla scoperta di una raffineria artigianale di coca più a monte, nella insospettabile dimora di un cittadino europeo e che, sulla vetta inaccessibile di una delle montagne circostanti, la Chiesa Evangelica ha costruito una piccola pista di atterraggio, con la motivazione ufficiale di trasportare, ogni 15 giorni, aiuti alimentari ad una sparuta comunità rurale.
Al di là del faraonico ponte sospeso sul Rio Grande, la strada per Santa Cruz diventa poco più che una mulattiera, una pista polverosa che si inerpica sulle creste montuose con una successione infinita di tornanti appesi nel vuoto. Nella stagione delle piogge si trasforma in una trappola mortale per gli sgangherati autobus, i cui passeggeri, insieme all’autista, devono combattere contro frane, crolli e pantani, spingendo tutti insieme l’automezzo nei tratti di salita più ripida e pregando gli dei perché nelle discese più pendenti le gomme tengano sul fondo saponoso.
Sono queste le zone della guerriglia che, secondo il disegno visionario del Che, negli anni 60 avrebbe dovuto irradiarsi a tutto il continente e travolgere le oligarchie capitalistiche e le dittature sanguinarie. Ma la diffidenza del partito comunista locale verso quel manipolo di stranieri, il mancato appoggio dei minatori dell’altipiano, il probabile boicottaggio cubano e l’indifferenza delle popolazioni rurali, blandite da Barrientos con una politica populista di distribuzione delle terre, condussero ad un rapido fallimento del tentativo rivoluzionario.
Dalla strada principale, una piccola deviazione porta a La Higuera, minuscolo centro di poche anime, incastonato sul fianco della montagna. È da qui che, nel lontano 1967, l’esercito di Barrientos, installato nella casa del telegrafista, controllava i movimenti della guerriglia. A poco più di un’ora di cammino da qui, scendendo nella boscaglia verso il fiume, alla Quebrada del Churo, il Che fu catturato in un’imboscata insieme a sei compagni. E sempre qui, nella piccola scuola rurale, oggi trasformata in museo, passò la notte, fu probabilmente torturato ed ucciso a sangue freddo insieme agli altri prigionieri. “Da questa porta” dice una scritta all’ingresso del museo, “un uomo uscì verso l’eternità”.
Se non fosse per la sgangherata FIAT Siena senza targa parcheggiata in un fosso e per i murales e l’orrenda statua dorata eretta in ricordo del Che, si potrebbe pensare che il tempo non fosse mai passato: niente elettricità, agricoltura di sussistenza, facce scavate dalla fatica e dagli stenti. Oggi i figli e i nipoti di quei contadini muti che oltre 40 anni fa non capirono, ebbero paura o, forse, addirittura, tradirono, consegnando all’esercito boliviano e alla CIA quel gruppetto di pazzi sognatori che si nascondeva armato nei loro boschi, assistono impassibili allo scorrere incessante della carovana di pellegrini che raggiungono La Higuera per rendere omaggio al mito, soprattutto argentini e francesi. Sopportano con rassegnazione l’irruzione della delegazione cubana che, ogni 14 maggio, in occasione del compleanno del Comandante, si materializza carica di alcool e di energia, consuma il rito, si sbronza e riparte lasciandosi alle spalle una scia di cocci e di lattine vuote. Accolgono volentieri i visitatori solitari che si fermano una notte, scattano foto e poi ripartono verso Vallegrande.
Da La Higuera a Vallegrande, dove fu esposto il cadavere del Che dopo l’esecuzione, la strada scende e la vista spazia all’orizzonte verso le fertili pianure che già odorano di Paraguay. A Vallegrande si può visitare l’ospedale dove, in un piccolo padiglione esterno, furono esibiti i resti, prima di essere sepolti in una fossa comune segreta insieme a quelli dei compagni. I sette corpi furono ritrovati solo dopo 30 anni, nel 1997, in un terreno abbandonato tra il cimitero e la pista del piccolo aeroporto. Adesso, nel luogo esatto della tomba, il Governo cubano ha costruito un mausoleo che accoglie pochi nostalgici, nell’indifferenza della popolazione del grosso centro agricolo. Se alcuni hanno capito che il tutto si può trasformare in un gigantesco affare e cominciano ad attrezzarsi, per la maggioranza il tour sulle orme della rivoluzione mancata è solo una sorprendente stravaganza di stranieri in cerca di emozioni forti.

4 Commenti a “Bolivia: sulle tracce del Che”

  1. francesco giammanco scrive:

    Eh gia’ Che non aveva capito nulla! Poteva farsi la bella vita all’Avana, farsi furbo…cosi’ direbbero quelli che allora lo consideravano un avventuriero romantico fuori dal marxismo-leninismo di stretta osservanza…essi hanno ben sfruttato la via parlamentare al socialismo. Peccato che abbiano perduto il socialismo per strada.
    Grazie Emilia.
    Fra

  2. gennaro guida scrive:

    Il viaggio di Emilia sulle tracce del Che induce a riflettere su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. E’ un invito a non darsi per vinti: un giorno il sole sorgerà.

  3. Francesco Muratore scrive:

    Grazie Emilia:)

  4. NESTOR BELLAVITE scrive:

    brava emilia, hai il dono di saper ricreare atmosfere a me care. in poche righe riesci a fare analisi precise e descrizioni appassionate

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