La “Grande Frattura” e le responsabilità della politica

1 Aprile 2016
stiglitz
Gianfranco Sabattini

Il libro di Joseph Stiglitz, “La Grande Frattura. La disuguaglianza e il modo per sconfiggerla”, è una raccolta di contributi pubblicati dall’inizio della “Grande recessione” che ha colpito l’economia mondiale nel 2008; essi hanno come filo conduttore il problema della “Grande Frattura”, ovvero della disuguaglianza distributiva della ricchezza e del reddito, che in tutte le società capitalistiche separa una ristretta minoranza dal resto della popolazione. Tuttavia, tutti i contributi, pur trattando prevalentemente gli aspetti economici della disuguaglianza, sono scritti nell’assunto che non sia possibile separare nettamente la politica dall’economia; dalla loro lettura affiora di continuo la descrizione dei nessi profondi esistenti tra politica ed economia, ovvero la descrizione degli effetti negativi del circolo vizioso che tali nessi alimentano ed amplificano; ciò perché un aumento della disuguaglianza economica si traduce in una crescente disuguaglianza politica, mentre un aumento di quest’ultima aumenta ulteriormente la prima.

I nessi che sono all’origine del circolo vizioso sono costituiti dall’interazione di quattro fenomeni, individuati da Siglitz nella disuguaglianza distributiva che si è creata in gran parte dei Paesi capitalisticamente avanzati, nella cattiva gestione delle singole economie, nella globalizzazione e nella qualità del ruolo del settore pubblico e del mercato. La crescente disuguaglianza è stata causa ed effetto della crisi del 2008 e del lungo malessere che ad essa ha fatto seguito. La cattiva gestione delle economie è dipesa dal ruolo negativo svolto dagli interessi particolari nei confronti della politica, sempre più aperta e disponibile a soddisfare gli interessi delle minoranze che detengono la maggior parte della ricchezza accumulata e che catturano la maggior parte del reddito prodotto. La globalizzazione, che se per un verso ha stimolato la crescita, per un altro verso, considerate le condizioni in presenza delle quali si è approfondita ed allargata, ha contribuito all’ampliamento della “Grande Frattura”. Il settore pubblico, sempre più indebitato, ha perso ogni capacità di effettuare interventi equilibratori e ridistributivi, mentre il mercato, sempre più deregolamentato, ha lasciato un crescente spazio al potere monopolistico delle grandi imprese e agli abusi del potere finanziario; fatto, quest’ultimo, che ha consentito alle banche di “darsi a pratiche di sfruttamento” e alle agenzie di rating di praticare comportamenti fraudolenti, fornendo alle banche stesse valutazioni creditizie elevate ed ignorando deliberatamente informazioni che avrebbero potuto condurre a una valutazione meno favorevole del credito concesso.

Il settore finanziario, secondo Stiglitz, è dunque la causa prima di tutto ciò che “è andato storto” nelle economie, essendo stato negli ultimi decenni il principale responsabile della crescita della disuguaglianza, dell’instabilità economica e dell’origine della scarsa performance dei sistemi economici avanzati. La liberalizzazione dei mercati finanziari, ottenuta con la deregolamentazione, “avrebbe dovuto consentire agli esperti di finanza di allocare meglio la scarsità del capitale e di gestire meglio il rischio; il risultato avrebbe dovuto essere una crescita più veloce e stabile”. Sennonché, osserva Stiglitz, è stato difficile fare funzionare bene il sistema economico senza un settore finanziario efficiente; ma il settore finanzio non è stato efficiente a causa della sua deregolamentazione, per cui non è stato possibile impedire, sia il danneggiamento dei risparmiatori e dei consumatori, che il suo orientamento a non assolvere le funzioni che avrebbe dovuto svolgere.

Per rimuovere le regole esistenti, il settore finanziario ha sviluppato una ideologia appropriata; questa ha promosso il convincimento che i mercati, se lasciati a sé stessi, conducono a risultati ottimali e stabili, sino a motivare la politica a liberalizzare ed a privatizzare il patrimonio pubblico, a limitare la tassazione progressiva, sulla base dell’assunto che essa avrebbe avuto degli effetti positivi sugli incentivi ad investire ed a produrre; inoltre, ha contribuito a radicare nel pensiero dei politici che il governo della moneta avrebbe dovuto concentrarsi sul controllo dell’inflazione e non sulla creazione di posti di lavoro. Infine, le scelte politiche “suggerite” dal settore finanziario hanno condotto alla grande recessione del 2008, a seguito della quale l’attenzione prevalentemente concentrata sull’urgenza di contenere i deficit dei conti pubblici ha condotto la politica a decidere tagli della spesa pubblica, che hanno danneggiato i cittadini, con la soppressione di molti diritti sociali e con l’aumento della povertà assoluta e relativa; effetti, questi ultimi, che a loro volta hanno aggravato gli esiti della recessione economica.

Alla responsabilità del settore finanziario nella determinazione della grande recessione del 2008, a parere di Stiglitz, va aggiunta la responsabilità di molti economisti; in particolare, di quelli che hanno concorso ad affermare il convincimento neoliberista che i mercati sarebbero riusciti a funzionare meglio, se lasciati liberi, in quanto dotati di forze intrinseche autoregolatrici.

Per porre un freno all’aggravamento della “Grande Frattura”, secondo Stiglitz, sarà necessario riportare il funzionamento dell’economia alla normalità, favorendo il supporto della formazione di un tasso di risparmio compatibile con il rilancio della crescita e dello sviluppo dell’economia, avendo sempre presente che un aumento del tasso di risparmio costituisce un fatto positivo per il rilancio della crescita e dello sviluppo a medio-lungo termine, mentre lo è meno se valutato nel breve termine. Il denaro risparmiato è denaro non speso, e se non viene speso, il motore dell’economia non “gira” a sufficienza; è questo il motivo, per cui le misure pubbliche finalizzate a migliorare il tasso di risparmio devono essere accompagnate da misure di altra natura, quali lo scoraggiamento dei consumi a debito, l’aumento delle tasse gravanti su grandi patrimoni, il rafforzamento della protezione sociale per i meno abbienti e il finanziamento di maggiori investimenti in istruzione, tecnologia e infrastrutture.

Stiglitz ritiene che l’insieme dei provvedimenti indicati sarebbe solo un primo passo per iniziare a porre rimedio alla “Grande Frattura”, costituendo questa l’ostacolo che soffoca qualsiasi tentativo di rimettere il sistema economico sulla via della crescita e dello sviluppo; sono diverse le ragioni, sempre secondo Stiglitz, per cui questo ostacolo, sin che durerà nel tempo, impedirà la ripresa. La più immediata è che la base della piramide sociale è troppo debole per trainare, con il consumo, la crescita economica; in secondo luogo, a causa dell’erosione del potere d’acquisto, le famiglie della base della piramide sociale, non sono più in grado di investire nel loro futuro; inoltre, la contrazione della quota del reddito prodotto dalla parte più povera del sistema sociale limita il gettito fiscale; infine, la disuguaglianza procede di pari passo con più frequenti cicli economici, che rendono incerti ed instabili la crescita e lo sviluppo.

Stiglitz avverte che i provvedimenti appena indicati possono essere attuati secondo diverse strategie di crescita e sviluppo. In primo luogo, si dovrà tener conto che la crescita e lo sviluppo non possono essere conseguiti attraverso il solo innalzamento del PIL, e devono inoltre risultare sostenibili: non sarebbero tali, se il loro perseguimento fosse basato “sul degrado ambientale, su consumi sfrenati finanziati attraverso il debito, sullo sfruttamento di risorse naturali sempre più esigue, senza reinvestirne i proventi”. In secondo luogo, crescita e sviluppo devono essere inclusivi ed arrecare benefici alla maggioranza della popolazione, risultando strumentali alla rimozione del convincimento della validità del “trickle down”, ovvero dell’effetto a cascata; ciò perché un semplice aumento del PIL può comportare un peggioramento, anziché un miglioramento, della situazione economica per la maggior parte dei cittadini.

Inoltre, la crescita e lo sviluppo devono essere perseguiti attraverso il potenziamento della protezione sociale, considerato che nelle economie moderne le iniziative dei cittadini comportano l’assunzione di rischi che i singoli non possono assumersi, se non sono adeguatamente protetti. Ancora, è necessario un ruolo attivo dallo Stato in termini più incisivi che nel passato, considerato che senza l’iniziativa pubblica è molto difficile che siano effettuati gli investimenti nelle infrastrutture moderne senza le quali risulta impensabile qualsiasi ipotesi di crescita e sviluppo; ipotesi la cui concretizzazione va perseguita in presenza di mercati ben regolati: se questi sono lasciati liberi nel loro modo di operare senza alcuna regola, non funzioneranno bene, come ha ampiamente dimostrato l’esperienza vissuta in occasione della grande recessione, della quale il mondo sta ancora subendo gli esiti negativi.

Nel saggio di Stiglitz un aspetto meritevole di particolare considerazione è l’affermazione secondo la quale la crescita e lo sviluppo possono essere perseguiti attraverso innovazioni tecnologiche, che non siano quelle effimere, realizzate negli anni passati nel settore finanziario, ma quelle in grado di contribuire al miglioramento effetto del benessere dei cittadini. A tal fine, a parere di Stiglitz, sarà necessario che l’attività innovativa non sia lasciata esclusivamente all’iniziativa privata; se ciò accadesse, tale attività finirebbe per essere guidata dalla redditività immediata dell’innovazione: il parametro del rendimento immediato non è quello socialmente più appropriato per calcolare il contributo netto dell’innovazione, sia alla crescita ed allo sviluppo di medio-lungo periodo, sia al miglioramento della qualità della vita dei cittadini. E’ quest’ultima ragione che giustifica, in particolare, la necessità che, nei processi innovativi che si svolgono all’interno dell’intero sistema economico, sia lo Stato ad assumerne la guida.

Ironia della sorte, nei dibattiti suscitati dalla crisi ancora in corso nel nostro Paese, si parla del ruolo dello Stato imprenditore-innovatore come fosse una novità, dimenticando che la presenza dello Stato come regolatore e stabilizzatore dell’economia è sempre stata una caratteristica del sistema economico nazionale; ciò ha consentito all’Italia di modernizzarsi, sino a trasferirsi dalla periferia del mondo e diventare uno dei principali sistemi economici dell’intera area mondiale. I guai del nostro Paese, guarda caso, sono iniziati proprio nel momento in cui la destra e la sinistra politiche si sono arrese al neoliberismo, sacrificando e distruggendo tutto ciò che l’”economia mista” aveva assicurato al sistema sociale italiano: crescita, sviluppo, Stato sociale, inclusione e solidarietà, della cui perdita si lamentano oggi gli esiti negativi.

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