Sul congresso della Fiom

16 Aprile 2014
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Loris Campetti

Lo smembramento delle comunità è l’aspetto più appariscente della crisi delle sinistre. Sul versante della politica e su quello sociale, la rottamazione dei valori e il disfacimento delle appartenenze ha portato alla sostituzione del “noi” con l’”io”. Non rappresenta una controtendenza il fatto che, spesso, le meteoriti prodotte dall’esplosione delle forme organizzate del passato tentino settariamente di compattarsi esaltando valori identitari esclusivi imbottiti di sostantivi simbolici, svuotati di sostanza come calamite ormai incapaci di attrazione. A destra, invece, l’appartenenza identitaria si rafforza e degenera, completamente liberata dai valori fondamentali e per una stagione condivisi: senza la solidarietà rispuntano egoismi rivendicati, odi etnici, piccole patrie.
Queste riflessioni mi scorrevano nella mente durante i tre giorni del congresso nazionale della Fiom conclusosi sabato sera a Rimini. Ascoltando gli interventi dal palco, girando nei corridoi dal Palacongressi, osservando la comunicazione affettuosa tra i delegati ma anche la gestione dei conflitti e delle differenze che in Fiom non mancano e spesso si trasformano in un propulsore culturale, si ha l’impressione che l’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil rappresenti una delle poche, se non l’unica, comunità di sinistra. Sempre che per sinistra si intenda una concezione delle relazioni tra le persone alternativa a quella dominante, informata ai fondamentali del capitalismo.
L’orgoglio dei fiommini è messo al sicuro dai rischi di identitarismo settario da centotredici anni di storia caratterizzata dalla solidarietà al proprio interno, dall’apertura all’esterno e al nuovo, dalla valorizzazione delle differenze. Ed è rafforzato da una pratica di autonomia che si traduce nell’indipendenza dai padroni, dai partiti e dai governo. Essere di sinistra, nel caso della Fiom, nulla ha a che fare con la dipendenza, diretta o indiretta, dalle forme storicamente assunte dai partiti di sinistra e dalle sue correnti che spesso di sinistra hanno solo il nome. La Fiom è un sindacato e non un partito, si occupa delle condizioni materiali delle persone che rappresenta e non di cosa combinano i suoi tesserati nel segreto dell’urna. Il rapporto con i partiti è presto detto dallo stesso Landini quando racconta del suo primo sciopero da operaio in’azienda cooperativa: al padrone che gli diceva io e te abbiamo la stessa tessera e dunque non ha senso scioperare, lui rispondeva: sul lavoro fa troppo freddo, e anche se abbiamo la stessa tessera scioperiamo ugualmente. Così, siccome la Fiom si batte contro la precarietà, il discorso non cambia se al governo c’è Berlusconi o Monti, Letta o Renzi. Eppure la Fiom fa politica perché ha un progetto forte: cambiare lo stato di cose presente. Per questo l’aziendalismo neocorporativo rappresenta un modello sindacale opposto a quello praticato dai metalmeccanici della Cgil.
La comunità guidata da Maurizio Landini non cede alla rassegnazione, viaggia contromano e riesce a rompere l’isolamento, tagliando il filo spinato alzato in nome del buon senso e del realismo che spingono gli altri sindacati, compresa la Cgil, ad accettare i ricatti di Sergio Marchionne. La Fiom risponde soltanto alla sua ragione sociale: gli operai e gli impiegati metalmeccanici. Non esiste eguaglianza senza democrazia, anzi in questa stagione per cancellare l’eguaglianza viene ridotta la democrazia, sterilizzata in nome della semplificazione e della governabilità. Spesso l’operazione comincia in fabbrica per poi estendersi alla società intera. Per questo la Fiom si batte in difesa della Costituzione, la “via maestra”; per questo i vituperati “professoroni” si trovano come a casa loro tra questo operai metalmeccanici.
Forse i lettori avrebbero preferito leggere in questo articolo il posizionamento della colonnina di mercurio nel termometro che segnala le distanze tra Fiom e Cgil, o più esplicitamente tra Landini e Camusso. O sapere che per la riconferma del segretario della Fiom ha votato l’81% dei delegati al congresso, più ancora del consenso raccolto dalla mozione di maggioranza (cioè quella minoritaria e falcidiata in Cgil). Chi scrive sa che queste informazioni sono ovunque, dunque già digerite. Meglio discutere a sinistra, forse, di cosa sia, nel 2014, una comunità.

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