Il convitato di pietra

Raffaello Ugo

Il convitato di pietra sta lì, seduto a capotavola, e tutto intorno c’è un gran chiasso. C’è gente che lancia oggetti, gente che si prende testate dai poliziotti e giura vendetta (dai, che sarà mai una testata) e la sensazione è che si eviti accuratamente di guardare là dove siede l’ospite. Che guarda in silenzio. Se solo ci solleviamo appena oltre la mischia, oltre la cortina fumogena alzata dai contendenti regionali, nazionali, mondiali non esiste altro futuro (se siamo ancora in tempo per parlare di un futuro) se non all’interno della formula “rifiuti zero”. Perché, semplicemente, la natura non produce rifiuti. Tutto il resto è illogico, insensato e criminale. In un mondo finito non possono esistere rifiuti e tantomeno rifiuti che si accumulano e che ci si ostina a nascondere sotto il tappeto. Perché sotto il tappeto i rifiuti si muovono, scivolano nelle falde acquifere e ci ritornano addosso senza che riusciamo nemmeno più a riconoscerli dentro il formaggio doc, il vino dop o la verdura cheap. Anche bruciandoli, se accettiamo l’idea che nulla si crea e nulla si distrugge. E allora quello che finisce negli inceneritori (“termovalorizzatori” secondo la brillante definizione che ne danno su a Brescia) si trasforma in piccoli pallini, come minuscoli proiettili d’acciaio, da 1 micron in su che se ne ridono dei filtri (che bloccano solo particelle superiori ai 10 micron) e indifferenti alle membrane protettive dei tessuti degli esseri viventi vanno a fermarsi negli organi molli del loro corpo. E tutto intorno formano come dei… eccetera. Nanoparticelle. Chiedono solo che le si lasci lavorare. Epperò il fumo sembra scomparire. Davvero nessuno sa esattamente dove vada a finire il fumo. E la diossina. Chiudiamo gli occhi. Bisognerebbe avere dei figli per preoccuparsi e gli italiani ne fanno pochi. E parliamo della solidarietà, questo sentimento che ci riempie giustamente di orgoglio, dopo vent’anni in cui le industrie del nord hanno scaricato rifiuti tossici in Campania grazie a comodi e produttivi collegamenti con la camorra. Ai campani attualmente rimane un’incidenza di tumori superiore a quella del nord pur mancando l’industrializzazione che ha il nord e tutto il nostro sdegno e disprezzo che si maschera con questa parola vuota, solidarietà. Capannori in due anni ha raggiunto l’82% di raccolta differenziata. Cagliari ha messo una decina di cassonetti qua e là. Il 40% della spazzatura che produciamo sono inutili imballaggi, ma chi li fabbrica non se li riprende e non li riutilizza; il 30% è umido che chiede solo di tornare alla terra; il restante 30% è plastica riciclabile, vetro che un tempo produceva nuove bottiglie, utili lattine e una certa quantità di secco non differenziabile a cui Paul Connet dà un nome preciso: “cattiva progettazione industriale”. Qualcuno giustamente teme lo shock che potrebbe provocare un cambio di rotta repentino. Un consumatore compulsivo come quello occidentale potrebbe vedersi aprire il baratro della sobrietà felice dove le cose tornano al loro posto lasciando spazio allo scambio tra esseri umani. Una prospettiva inaccettabile per un’economia che si regge solo sul consumo continuo di risorse e che barcolla con cadenze sempre più ravvicinate costringendo giganti con i piedi di argilla come gli Stati Uniti a organizzare nuove guerre per rilanciare il mercato interno in crisi e tentare di regolare l’economia mondiale. Ma tornando a volare basso si scopre che neanche Legambiente riesce a fare una buona raccolta differenziata infilando nello stesso sacchetto cittadini e teppisti. Mentre un centinaio di cittadini veniva depistata intorno alle 23 del 12 gennaio con la notizia dell’arrivo di un’altra nave di rifiuti dalla Campania nel porto di Cagliari, una mail circolava in rete: “Rispondiamo al teppismo del lancio di bottiglie incendiarie e al rogo dei cassonetti con una lezione di civiltà: domani alle 10.30 puliamo il Poetto alla 1a fermata. Parteciperà Renato Soru”. Quando si dice la lungimiranza. E i buoni sentimenti.