Il partito sociale

16 Settembre 2008

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Andrea Morniroli

Nell’affrontare il tema del “partito sociale” vorrei partire dal mio essere operatore – e di esserlo in una città complicata e difficile, per certi versi affascinante e cinica, come Napoli. Da tale osservatorio, è impossibile non evidenziare che lo spostamento a destra della nostra società è molto più diffuso, profondo e radicato di quello che dice, pur con tutta la sua pesantezza, il dato elettorale. Uno spostamento complessivo, ma che risulta particolarmente drastico sui temi dei diritti, della relazione con le differenze, della costruzione di sicurezza.
Qui si è definitivamente cancellata, nel dibattito ma anche nell’immaginario collettivo, quella cultura della cura che riconosceva l’altro, qualunque fosse il suo genere e la sua identità, qualunque fosse la sua condizione, qualsivoglia fossero i suoi comportamenti e le sue possibilità, prima di tutto come persona di cui farsi carico, individualmente o collettivamente. Inoltre, e sarebbe stupido negarlo, si è determinata una frattura profonda tra la nostra idea di comunità – accogliente, solidale,  multiculturale – e quella che è andata affermandosi, in modo largo e trasversale, in questi anni come comunità chiusa e corporativa, egoista e spietata. Dove i processi identitari si fondano sull’annullamento e sul dominio delle identità altre . Dove la violenza appare, dal punto di vista sociale, antropologico e culturale, come principale elemento regolatore delle relazioni tra individui e tra comunità. Un’idea di società che ha trasformato le nostre città nei luoghi dell’esclusione, abitate da competitori e non da cittadini, infastidite da ogni forma di ospitalità, dove gli ultimi, i più deboli e fragili, i diversi sono costretti a stare in quella sorta di istituzioni totali senza muri che sono spesso le periferie sociali e geografiche delle nostre città.
Lo stesso pacchetto sicurezza, al di là dei pur gravi danni specifici che determina sul quotidiano concreto di migliaia di individui, ha in qualche modo sancito la definitiva affermazione di tale deriva, proponendo -per dirla alla Revelli- una democrazia autoritaria e dispotica, introducendo un“diritto penale della disuguaglianza” che raggiunge il suo apice quando trasforma una semplice  condizione personale, quella di straniero, in reato. Tutto ciò non avviene a caso. Una società così caratterizzata è completamente utile, funzionale al modello liberista. Lo è perché trasforma ampie fasce di popolazione in merce, in un serbatoio di manodopera senza diritti, altamente ricattabile e sfruttabile. Lo è perché scarica le paure delle persone per la precarietà di vita e per l’assenza di futuri certi non sul modello economico che le determina, ma su miglia di “nemici opportuni”,  senza possibilità di difesa,  senza voce, perché troppo differenti per esser creduti. Lo è perché comunità frantumate, senza legami e relazioni, sono più deboli e quindi incapaci di resistere agli attacchi selvaggi del mercato al territorio e all’ambiente; non hanno antidoti per fermare la rapina della privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua.
Se queste non sono solo riflessioni pessimistiche di un operatore un po’ stanco e deluso, allora dobbiamo interrogarci collettivamente sulle responsabilità che hanno determinato tutto questo. E non solo individuando  le responsabilità degli altri, ma in particolare quelle che sono riportabili a noi o agli universi a noi vicini.
Il PD, con il coinvolgimento della gran parte delle correnti culturali che in esso si riconoscono,  su queste questioni non ha mai smesso di rincorrere la destra sul suo terreno fino ad arrivare a situazioni paradossali. La sinistra radicale, troppo spesso impreparata e in ritardo sulle questioni dei diritti, delle differenze, della laicità. Frettolosa nell’etichettare le paure come forme di razzismo diffuso, senza capire l’urgenza di trovare forme di comunicazione utili per entrare in contatto con le persone, per evitarne lo scivolamento nei luoghi e negli spazi preparati ad arte dalla destra e dalla Lega. Ma anche all’interno del mio mondo, quello del lavoro sociale, non posso fare a meno di evidenziare errori e contraddizioni. Gli eccessivi tecnicismi, come se le questioni dell’emancipazione e della cura fossero affrontabili con gli unici strumenti della professionalità.
I tanti enti (associazioni, cooperative, finti gruppi di volontariato) che in questi anni hanno privilegiato il mercato alla mission, e che per questo hanno favorito i processi di privatizzazione del sistema di protezione sociale. I troppi soggetti collusi e collaterali alla politica, pensandolo come unico modo (forse a ragione vedendo la politica e le sue modalità) per vincere un appalto o veder finanziato un servizio. Ma se tutto ciò è vero è altrettanto vero che nel lavoro sociale  si sono sviluppate anche decine di esperienze importanti e positive. Associazioni, cooperative, forme di auto-organizzazione sociale dal basso che dentro ai territori, sporcandosi le mani, hanno provato ad arginare quelle derive negative; hanno lavorato con gli ultimi e i senza voce promuovendo e tutelando diritti, provando a garantire pari opportunità; hanno provato a costruire partecipazione e relazioni nei luoghi del disagio e delle contraddizioni urbane, cercando di sostituire convivenza e accoglienza al conflitto e all’esclusione; hanno provato a restituire visibilità a persone a cui spesso è negato anche il diritto di appartenere all’umanità. Un universo del “fare” che ha permesso la costruzione di saperi, di competenze, di racconti e di memorie che oggi hanno bisogno di uscire e contaminarsi con altri saperi e con altri luoghi di pratiche positive. Hanno bisogno di comprendere cosa lega, in modo stretto e profondo, le iniziative di tutela delle persone transessuali con quelle che difendono i territori, la caratteristica pubblica dei beni comuni, e  lottano contro la precarietà del lavoro. Hanno bisogno di capire che gli affetti che nascono e si creano in un centro diurno per  disabili, probabilmente sono forti e belli come quelli che sono nati tra le persone impegnate nei presidi permanenti in Val di Susa o contro la base americana di Vicenza.  In altre parole, hanno urgente bisogno di trovare una loro nuova e diversa dimensione politica, fondata sullo stretto legame con le pratiche,  fortemente radicata nel territorio, capace di farsi carico del quotidiano, coraggiosa perché in grado di non rifiutare il conflitto, l’odore acre e l’umidità che spesso hanno le relazioni tra donne e uomini nelle fatiche di ogni giorno.
Sono realtà che hanno percepito da tempo e in modo sempre più diffuso la necessità di aprire un’interlocuzione con la politica, ma che spesso in tale relazione sono rimaste deluse. Troppo spesso hanno incontrato una politica incapace di ascoltare, più attenta all’auto-conservazione che alla produzione di cambiamento sociale. Arrogante nella presunzione dei propri saperi e nello stesso tempo vigliacca perché incapace di andar controcorrente su questioni difficili dal punto di vista della creazione di consenso elettorale. Una politica che ancora e anche a sinistra, anche nella sinistra radicale, spesso è del tutto coinvolta in quei processi di gestione privata della cosa pubblica che in troppe realtà, soprattutto nel Mezzogiorno, alimentano tra le persone la deleteria confusione tra diritti e favori.
E allora, ben venga ogni incontro, dove si discute e ci si confronta sul “partito sociale”, sul mutualismo e su pratiche politiche costruite con le persone sui bisogni quotidiani. Dove, finalmente, nel linguaggio della sinistra, senza problemi, entrano concetti come “cultura del dono”, dove si raccontano e si dà spazio ad esperienze di banche del tempo e  acquisto solidale. In un percorso comune  tutti i soggetti coinvolti devono saper assumere una sorta di “postura relativista”, dove ognuno sia consapevole e convinto del proprio ruolo e dei propri contenuti ma allo stesso tempo sia convinto dell’indispensabilità dell’altro, sia consapevole dei propri limiti e delle proprie impossibilità.
Occorre che ognuno metta in discussione, pur non negandoli, i propri linguaggi. Occorre che ognuno non si spaventi della  necessità di abitare il dubbio e la contraddizione. Allo stesso tempo, dobbiamo insieme riscoprire il coraggio della denuncia; dobbiamo imparare dal movimento femminista e GLBT ad assumere fino in fondo i paradigmi della laicità e dell’abbandono dei moralismi; dobbiamo tenere le proposte e le iniziative legate alle nostre pratiche come spazio di sperimentazione sulla loro utilità. Infine, e forse soprattutto, dobbiamo aprire relazioni e mediazioni tra le esigenze e i diritti delle persone più fragili e in difficoltà con quelli degli uomini e delle donne dei territori in cui essi abitano, altrimenti non riusciremo mai ad incrinare ad interrompere quel perverso legame tra gli “imprenditori della paura”, come li chiama Rodotà, e gli spaventati. Perverso legame, per altro,  sul quale  si alimenta e si diffonde quella deriva culturale che vorremmo arginare e rovesciare. E’ su questi terreni che quelli come me possono aprire un rapporto vero e continuativo con un percorso di partito sociale. Sapendo che un’interlocuzione di senso non può basarsi solo sui convegni ma sulla condivisione di pratiche, sul confronto aperto e sincero, sulla cessione reale di potere aprendo alla partecipazione i luoghi dove si prendono le decisioni. Se non faremo questo, avremo messo insieme l’ennesima delusione, l’ennesimo spreco di tempo. Se non sarà così, il partito sociale avrà tutta la mia simpatia, magari il mio voto, ma, per quel poco che conta, neanche un briciolo della mia militanza.

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