I costi dell’uscita dall’euro

1 Marzo 2015
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Gianfranco Sabattini

Il problema della Grecia ripropone la discussione sui possibili effetti positivi o negativi che potrebbero derivare, per un Paese in crisi, dalla sua uscita unilaterale dall’eurozona. Al riguardo, non esiste un’esperienza storica che possa consentire una realistica valutazione degli scenari possibili. Si possono solo effettuare, alla luce della teoria economica tradizionale, alcuni plausibili previsioni, che inducono a pensare che l’euroexit non è un toccasana, come molti credono, per i Paesi che decidono di secessioanre.
In linea de principio, la scelta di entrare a fare parte dell’eurozona è per i Paesi che l’hanno effettuata irreversibile, nel senso non è possibile tornare indietro, in quanto l’euro è una costruzione che, anche se è frutto della creatività dell’uomo, rappresenta oggi una realtà la cui rottura può costare solo “sudore, lacrime e sangue” per il Paese o per i Paesi che dovessero decidere di recedere unilateralmente da quell’istituzione.
Certo, sia pure col senno di poi, si può essere propensi a credere che l’adesione di un dato Paese (Grecia o Italia, non fa differenza) alla Moneta Unica Europea sia stata prematura e che oggi, assieme ai molti vantaggi, produca anche danni originariamente sottovalutati o non previsti; ma i danni derivanti da un’uscita unilaterale dall’euro sarebbero disastrosi, soprattutto sul piano sociale, oltre che su quello economico. Di questo, l’opinione pubblica, prima di farsi catturare dalle chimere sventolate da presunti “guru” politici improvvisati, deve rendersi conto, anche perché dei danni non sarebbero certo i “guru” a risentirne, ma i cittadini che, a causa della crisi e dell’austerità praticata ormai da anni, sono ridotti ad uno stato esistenziale che non consente loro di “sbarcare il lunario” mensile.
I “guru” che, solo per motivi elettorali, propagandano la fuoriuscita di un Paese dall’euro, mancano di dire onestamente all’opinione pubblica alla quale si rivolgono in che cosa consisterebbero i danni sociali conseguenti all’abbandono della moneta comune; nel migliore dei casi, essi si limitano ad affermare che, in questo modo, il Paese che secessionasse dall’eurozona ricupererebbe la propria sovranità monetaria, fiscale e di bilancio alla quale ha rinunciato, aderendo al progetto della Moneta Unica Europea, compromettendo la possibilità di governare il proprio sistema economico e sociale nella stabilità, così come era accaduto negli anni anteriori alla costituzione dell’eurozona.
Essi a sostegno della loro tesi fanno riferimento a quanto alcuni critici internazionali della moneta unica, con in testa Edward Nicolae Luttwak (un politologo e saggista rumeno naturalizzato statunitense, molto conosciuto al pubblico televisivo italiano per il realismo dei suoi commenti riguardo alla situazione politica ed economica mondiale), secondo i quali ai Paesi in crisi converrebbe tornare alla situazione precedente l’introduzione dell’euro, perché potrebbero così avvalersi dei vantaggi connessi all’attuazione di una politica economica inflazionistica a sostegno delle proprie esportazioni. Questi critici, però, al pari dei “guru” politici che si avvalgono dei loro giudizi, nulla dicono sugli effetti sociali che si avrebbero se un Paese dovesse ritornare unilateralmente alla vecchia prassi di proteggere la capacità competitiva della propria base produttiva unicamente ed esclusivamente attraverso l’inflazione della propria moneta nazionale.
Se un Paese uscisse dall’euro, nella prospettiva di poter aumentare attraverso l’inflazione la capacità competitiva delle proprie imprese, darebbe il via ad un insostenibile circolo vizioso fra inflazione e svalutazione, che metterebbe capo a crescenti disavanzi dei conti pubblici e alla crescente esigenza di contenerne l’espansione attraverso la leva fiscale, ovvero attraverso una rigorosa austerità. A pagare il prezzo dell’abbandono unilaterale dell’euro sarebbero dunque i cittadini; non proprio tutti, ma quelli dotati di un reddito sicuramente non paragonabile con quello di chi sostiene l’opportunità dell’abbandono dell’euro.
Il motivo per cui sarebbero i gruppi sociali economicamente più deboli a pagare il costo della fuoriuscita dall’euro sono sempre sottaciuti, o mistificati attraverso tesi “ad hoc”, come quella secondo cui, dopo un periodo iniziale di assestamento e di disagio dovuto agli effetti inflazionistici, tutto si sistemerebbe. Già; ma quanto dura il periodo iniziale? E che cosa avviene in termini reali per effetto dell’inflazione praticata a sostegno delle esportazioni?
Per rispondere a questi interrogativi, occorre considerare che l’inflazione, finalizzata a permettere alle imprese del Paese che secessiona dall’euro di competere sui mercati internazionali, pur garantendo i necessari surplus valutari coi quali pareggiare i conti con l’estero, altro non è che un “regalo”, sotto forma di sconto, o di vendita sottocosto, che il Paese effettua nei confronti degli importatori stranieri; il costo di tale “regalo” non grava sulle imprese che lo elargiscono, ma sui cittadini, soprattutto quelli a basso reddito che più risentono della diminuita capacità d’acquisto.
Chi propone l’exit dall’euro sostiene anche, banalmente, che fra i benefici della pratica di una politica monetaria inflazionistica vi sarebbe quello di erodere il valore reale del debito pubblico del Paese indebitato, in quanto con l’inflazione il debito sarebbe reso più sostenibile nel lungo periodo. La maggior sostenibilità, si afferma, andrebbe a beneficio dei cittadini del Paese indebitato in crisi ed a scapito delle grandi banche d’investimento che detengono i bond di tale Paese. Un discorso, questo, privo di senso; infatti, i finanziatori esteri non sono poi così ingenui da non riuscire ad evitare che ciò avvenga, come minimo minacciando di rifiutare il rinnovo dei prestiti alla scadenza dei precedenti.
Si sostiene ancora che, in fin dei conti, a “rimetterci” sarebbero i cittadini più abbienti, in quanto portatori di titoli del debito pubblico; ciò nella presunzione che, in questo modo, i cittadini più facoltosi sarebbero coinvolti nel ristabilimento dell’equilibrio dei conti pubblici, ma nell’ignoranza che questi “cittadini facoltosi” sono per lo più le banche nazionali. E’ da presumere che queste, come i creditori esteri, si guarderebbero bene dal continuare a sottoscrivere titoli del debito pubblico a fronte di una politica monetaria che le dovesse penalizzare.
In ultima istanza, quali che siano le giustificazioni addotte a sostegno della fuoriuscita di un Paese dall’Unione Monetaria Europea, esse non riescono a fugare la certezza che a pagarne il costo siano solo coloro che, al presente, stanno peggio.

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